Giovanni Raboni, il re-censore

Giovanni Raboni (1932-2004) oggi avrebbe compiuto 90 anni. È stato uno dei più illustri poeti italiani, traduttore della Recherche di Proust, dirigente editoriale, critico per molteplici riviste e testate.

Ci vuole coraggio per cantare fuori dal coro. Parafrasando Jannacci, ci vuole pure orecchio, anzi parecchio. Per averne la prova basta anche solo scorrere alcune delle recensioni composte da Giovanni Raboni tra il 1964 e il 2014, una bella selezione la potete trovare nel volume di Mondadori, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro (2019). «Militante» per Raboni non è l’ideologo di parte, quanto semmai chi non fa sconti a nessuno, men che meno agli amici, con buona pace delle consorterie che applaudono e dei premi che arridono ai soliti noti; militante è in particolare chi è consapevole che, per esercitare una lettura critica degna del nome e dell’impresa, occorre andare alla radice del termine: critica sta per vaglio, setaccio, rigorosa selezione. Solo se trattieni quel che è grossolano, promuovi il meglio: «Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento, serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato».

Il legittimo sospetto

Per chiarire l’incedere del Nostro, quando un’opera viene osannata da tutti, o da troppi, scatta in lui il legittimo sospetto che il coro sia teleguidato, o più semplicemente popolato di ovini: tutti in coda al carro del vincitore, se sopra non c’è posto. Idem, a contraltare: se un prodotto culturale non vuole a tutti i costi apparire, come Leopardi nei salotti fiorentini, ecco il dubbio, o talvolta la semplice intuizione, che possa nascondere una qualche meraviglia. Un esempio: a Raboni crea imbarazzo «l’unanimità impressionante» tributata a Montale; lui preferisce Rebora, Saba, Ungaretti, Luzi e Sereni, Tessa magari. Bastian contrario per scelta e vocazione, il re-censore per antonomasia non sopporta il traffico delle indulgenze, gli intellettuali che vanverano senza costrutto, coloro che si spacciano l’un l’altro per geniali. Risultato dell’andazzo sono «i libri […] sfrontatamente consumistici, i libri “inventati” dall’industria, insomma le monete false […] che l’industria vuole imporci (e di fatto con il prezzolato e colpevole avallo della critica ci impone) per vere e sonanti».

La nobile arte di farsi dei nemici

Negli articoli di Raboni troviamo giudizi severi, comunque sempre ampiamente argomentati, ma anche non pochi elogi. Si prendano le parole dedicate a Pasolini, severe e al tempo stesso commosse: «Lo strano destino di questo grande intellettuale è stato quello d’essere poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filologia come nel cinema, in tutto, tranne che nella poesia». Ancora: Raboni riconosce il talento narrativo di Piero Chiara, che ha «davvero la scrittura nel sangue», a discapito di certe varianti dell’ultimo Calvino, «scrittore certamente buono cui manca, per essere grande, il necessario ardimento espressivo». Bocciati nomi famosi, tra cui l’intoccabile Borges: «Dai futuri studiosi di letteratura il nostro tempo verrà ricordato, con grave e speriamo compassionevole stupore, come quello in cui si è potuto credere che Borges fosse un grande scrittore…». Il tutto in presa diretta, non mesi o anni dopo l’uscita del libro in questione. Si prenda Il nome della rosa, che Raboni paragona a un’«ingegnosa imitazione in legno di balsa o in polistirolo dei grandi romanzi che una volta si costruivano in pietre e mattoni». È forse meglio Il pendolo di Foucault? No, quello è «un’autentica patacca», anche se «sotto il profilo letterario Eco va assolto per non aver commesso il fatto».

Meglio star zitti?

Certo, travolto dal profluvio di opere d’accatto, a volte il critico milanese sembra disperare: «No, no, meglio star zitti; oppure allinearsi con Sordi, che dell’arte di arrangiarsi, come dimostrano tanti suoi personaggi giustamente famosi, è uno che se ne intende». Ma subito si ripiglia e torna più ardimentoso che mai, sferzando premi Nobel che proprio non comprende: «I suoi testi sono del tutto privi, non dico di valore letterario, ma persino di un’effettiva, autonoma leggibilità». Chi è? Facile, Dario Fo; ovvero promuovendo – purtroppo invano – candidature alternative: «Credo che Mario Luzi non vincerà mai il Premio Nobel. Prima di tutto perché è un grande poeta e i grandi poeti che dal 1901 ad oggi abbiano vinto il Premio Nobel non sono (controllare per credere) più di cinque o sei. Poi perché non è mai stato perseguitato dal governo del suo Paese, non appartiene a una cultura “emergente”, non è il cantore di una minoranza oppressa, tutte cose che costituiscono – com’è noto – titoli di particolare merito agli occhi degli accademici svedesi. È, purtroppo per lui, un poeta italiano, cioè il “rappresentante” di una nazione che è sempre più difficile prender sul serio e che non è ancora possibile ascrivere al terzo mondo». Insomma, altro che star zitti, semmai qui si tratta di dare battaglia quando occorre, cioè spesso, e segnalare quel che merita, cioè di rado. Il motivo? Ce lo svela Raboni facendo sue le parole di Vittorio Sereni: la vera letteratura va riconosciuta e difesa come «una forma di conoscenza del mondo» e dunque «un luogo della verità umana».


L’opera poetica di Raboni è raccolta in un Meridiano Mondadori.

10 Commenti

  • Eros Barone Posted 4 Febbraio 2023 13:35

    Egregio Claudio, consentimi, sfidando ancora una volta il rischio di una ridondante prolissità, di tornare sulla “questione Raboni/Chiara/Morselli”, ripartendo dal primo, il quale, confrontando i due scrittori, a tale questione ha offerto l’abbrivo. Riporto l’epicrisi con cui si conclude il giudizio derogatorio di Raboni: «Morselli, scrittore discontinuo e dilettantesco con qualche punta di genialità, è letterariamente assai inferiore a Chiara, narratore spesso corrivo ma dotato di un’energia stilistica, di una franchezza inventiva, di una capacità di evocazione tanto notevoli quanto inconfondibili. D’accordo, stavolta, con l’ipotetico “lettore comune”, sono pronto a dare tutta l’opera narrativa di Morselli, che sembra scritta con una penna stilografica caricata ad acqua, per uno solo dei più bei racconti di Chiara (“Il piatto piange”, “L’uovo al cianuro”), dove ogni pagina, ogni frase rivelano la precisione timbrica, il fiato, la scioltezza di chi ha davvero la scrittura nel sangue (e, dunque, sa mettere sangue nella scrittura)».

    Credo che una bestemmia proferita in una sacrestia (e corredata da una grossolana metafora vampiresca) sarebbe apparsa meno oltraggiosa e inqualificabile di un simile giudizio critico, se così si può definire! A ben guardare, un abbaglio come questo può essere spiegato soltanto attraverso la disgiunzione tra la forma e il contenuto nello scrutinio critico di un testo letterario. Sennonché la verità è che la letteratura si fa nel linguaggio, ma non è data con il linguaggio, e di questo fondamentale assunto metodologico, enunciato da Sartre, si dovrebbe tenere il debito conto, perché i contenuti contano e determinano, insieme con la forma e in pro di Morselli, l’incolmabile differenza di valore, per usare la coppia categoriale che Claudio ha richiamato, tra un narratore e uno scrittore.

    • Claudio Calzana Posted 4 Febbraio 2023 14:20

      Caro Eros, quando scrivevo romanzi m’immaginavo d’esser scrittore e invece ero più che altro un narratore. Piero Chiara, dunque, non certo Morselli, e me ne sono fatta una ragione. Se ci ragiono adesso, mi pare che a ciascuna delle due figure si adatti un certo tipo di lettore: evasivo e d’evasione per il primo, esigente ed esatto per il secondo. Insomma: a ciascuno il suo. E grazie per la tua acribia.

      • Eros Barone Posted 4 Febbraio 2023 16:23

        Stimato Claudio, approfondendo e generalizzando il discorso si può ancora osservare che, fin dalle origini della nostra tradizione culturale, lo scrittore risulta investito di una duplice funzione, omerica ed esiodea: egli è colui che riconosce e celebra gerarchie e valori sociali e, insieme, colui che trasmette e insegna la sapienza che si manifesta nel lavoro quotidiano. Sennonché queste due funzioni, soprattutto la prima e, in una certa misura, la seconda (sia pure, nella letteratura italiana contemporanea, con eccezioni fulgide, come “La chiave a stella” di Primo Levi e “Atlante occidentale” di Daniele Del Giudice) sono andate in crisi, e l’espressione di questa crisi è soprattutto il romanzo.
        Come certamente saprai, in un suo famoso saggio su Leskov, Walter Benjamin ha contrapposto il romanzo al racconto: alla saggezza popolare del narratore, voce corale della sua gente e latore di insegnamenti e consigli, è così subentrato il monologo del romanziere, la fredda compiutezza stilistica dell’artista sradicato, il quale è ormai consapevole che le cose sfuggono alle parole con cui si cerca di afferrarle e che, in ultima analisi, l’esperienza individuale risulta incomunicabile. Sorvolando rapidamente il territorio della “crisi del romanzo”, confinante con la “crisi dei fondamenti” avvenuta nella fisica e nella filosofia all’inizio del Novecento, si può ancora osservare che nella “Teoria del romanzo” Lukács identifica il romanzo con la voce dell’‟espatriazione trascendentale”, ossia con lo sradicamento dalla coralità dell’epica. Ma il presupposto dell’epica è una totalità sociale in cui tutti possano riconoscersi, è l’universalità immediata di valori e punti di riferimento validi per ognuno, la possibilità di trasmettere l’esperienza senza negare le peculiarità individuali, e cioè la possibilità di narrare.
        Per Benjamin, che trae le somme di questa ‘démarche’ sul piano storico, è simbolicamente la prima guerra mondiale a segnare la fine dell’epica, del rapporto fra molteplicità individuale e unità del mondo; per Lukács è la civiltà borghese che ha infranto, già molto tempo prima, quella totalità organica e unitaria della vita, la quale aveva consentito la creazione delle grandi epopee in cui essa si era rispecchiata. L’imponente opera di Verga conchiude idealmente il secolo, non solo in Italia, con la cupa immagine di un mondo di vinti, di una storia che si volge inevitabilmente alla catastrofe e – quando non si chiude regressivamente nell’“ostrica” di una animalesca elementarità – di un’arte che può solo raccontare in quale sconvolgente misura la vita sia un funerale travestito da carnevale (sto citando un diorisma di Giovanni Arpino – ma potrebbe essere benissimo di Pirandello – contenuto in un romanzo che può ben essere ascritto alla categoria calzanesca dei “g.a.d.d.a.”: intendo “Passo d’addio”).

      • Claudio Calzana Posted 5 Febbraio 2023 09:19

        Grazie, Eros, anche per le eccezioni che citi: come forse avrai visto, a La chiave a stella e a Del Giudice ho dedicato un articolo ciascuno. Il saggio che ho pubblicato su Just-Lit (Il dito nella tazza) si occupa proprio di quel che scrivi, e guarda caso vede Benjamin al centro. Lo pubblicherò a breve anche su questo mio blog, e mi farebbe molto piacere se tu riuscissi a dirmi che te ne pare.

  • Eros Barone Posted 30 Gennaio 2023 10:02

    Che Piero Chiara sia assurto all’Olimpo letterario italiano è sembrato trovare conferma in virtù dell’ingresso nei “Meridiani” della Mondadori (due grossi volumi che raccolgono la sua opera narrativa). La speranza, nutrita dalla folta schiera dei lettori e dagli scelti cenacoli dei suoi estimatori, era che ciò sancisse il conferimento della palma di massimo narratore italiano del secondo Novecento allo scrittore luinese; l’obiezione è che il compito di accertare i valori estetici non spetta agli uffici commerciali delle case editrici, almeno fin quando sopravvivrà in questo paese un barlume di senso critico.

    Sotto questo profilo, è perfino discutibile che le dimensioni monumentali del doppio “Meridiano” dedicato ai romanzi e ai racconti dello scrittore di Luino rendano un buon servizio ad una narrativa improntata ad un dannunzianesimo goliardico e ad un edonismo un po’ bovaristico, insaporita dalla vena facile e briosa di un affabulatore, quale era, secondo la leggenda ben presto alimentata da testimoni che lo conobbero personalmente, l’autore stesso nelle sue esposizioni orali, capace con le sue storie di tenere inchiodati per ore e ore, col fiato sospeso e l’attenzione ben desta, anche gli ascoltatori più distratti.

    Sennonché ciò che non si può perdonare a Piero Chiara, nonostante l’abilità nel dipanare il filo del racconto, nonostante le indubbie doti di pittore di una provincia accidiosa e meschina, convinta, sotto la dittatura fascista, di vivere, fra postriboli e bar, nel migliore dei mondi possibili; ciò che non si può perdonare a questo incrocio di Guido da Verona e di Pitigrilli, dicevo, è, oltre ad un repertorio, sia tematico che stilistico, quanto mai ripetitivo, l’assenza di tensione intellettuale e morale tanto nei suoi racconti quanto nel suo modo di raccontare. Va da sé che tale assenza risulta soltanto temperata, ma non riscattata, dal distacco scettico e dal disincanto, lucido sino al cinismo, di un liberale conservatore per cui il fascismo era senz’altro, rispetto ad altre alternative, il male minore che potesse toccare al nostro paese. E proprio “Il piatto piange” (1962) è da considerare il suo libro migliore, quello in cui anche i difetti strutturali della narrativa di Piero Chiara, prima ricordati, diventano pregi e lo scrittore traccia con mano sicura e sapiente il ritratto (che è anche un autoritratto) di una generazione che sembrava vivere, come gli dèi di Epicuro, in una sorta di villeggiatura perpetua e ignorava, o fingeva di ignorare che, come ebbe a dire una volta un grande rivoluzionario russo, chi voleva vivere tranquillo non doveva nascere nel ventesimo secolo.

    Fra i libri migliori di Chiara mèrita, peraltro, di essere menzionata, anche perché si è conquistata un posto di primo piano nella ricca letteratura biografica sul personaggio, la splendida “Vita di Gabriele D’Annunzio” (1978), racconto in cui il rigore della documentazione storica, la fluidità dello svolgimento, l’eleganza del dettato e l’equilibrio del giudizio infondono vita e verità ad un ritratto antiretorico, sobrio, essenziale e profondo, del ‘poeta-vate’.

    Del resto, la stessa vita di Piero Chiara ebbe un epilogo degno della narrativa dello scrittore, se è vero l’episodio riportato nella “Cronologia” che correda questa monumentale edizione dei romanzi e dei racconti da lui composti, là dove segnala la coincidenza, che solo la fantasia più paradossale e l’invenzione più satirica dello scrittore potevano concepire e, sia pure ‘post mortem’, attuare: la coincidenza in virtù della quale – correva l’anno 1986 – gli amici e i parenti che seguivano il suo funerale si ritrovarono per errore, non senza sconcerto, a seguire un funerale con accompagnamento di bandiere rosse e canti partigiani, che era poi quello del padre di Dario Fo, vecchio socialista luinese.

    • Claudio Calzana Posted 30 Gennaio 2023 10:30

      Caro Eros, la felicità di scrittura di Chiara – anche se parecchio spettinata – è per me un valore nel segno dell’oralità intesa quale fonte della narrazione; e tra un impegno eccessivamente “ruvido” e un disimpegno disinvolto preferisco il secondo, basta che non strizzi l’occhio in cerca di complicità. Fatico insomma a dar retta a una letteratura che esprima giudizi morali, se non nella forma che le è propria, quella per l’appunto narrativa. Dentro, e non tramite, la narrazione.

  • Carla Posted 22 Gennaio 2022 09:34

    Quanti pareri, oggi, con il distacco e la distanza dai protagonisti, sono condivisibili. “Il pendolo di Foucould” una patacca, la moda celebrativa di Borges. A Fo non ho mai creduto anche in epoca sessantottina. Mi riprometto di andare a rileggere Luzi.

    • claudio calzana Posted 22 Gennaio 2022 13:50

      Grazie del commento, Carla. Posso solo aggiungere che Raboni è un antidoto perfetto alle celebrazioni del sistema editoriale. Serve distanza, serve misura, prima di celebrare come immenso un romanzo o un autore. E lo dico mentre sbircio nella mia biblioteca le opere complete di Borges edite da Emecé, ovvero il volumone in lingua originale…

    • Eros Barone Posted 30 Gennaio 2023 15:55

      Caro Claudio, il metodo comparativo, agganciato ad una stessa realtà locale (la provincia varesina) e articolato sulla diade Chiara/Morselli, può risultare utile a dirimere il nodo noetico, etico ed estetico del rapporto tra conoscenza/verità e gradevolezza/bellezza, che emerge dalle nostre valutazioni. In effetti, se si pongono a confronto la personalità di Chiara, improntata ad un dannunzianesimo goliardico e a un edonismo un po’ bovaristico, e quella di Morselli, in cui la riflessione filosofica sui grandi temi cosmici, storici ed esistenziali non va disgiunta da una sottile, corrosiva e irrisolta tensione di stampo teologale, non si potrebbe immaginare un’antitesi più netta sia di tipi umani e morali sia di interessi culturali e risultati letterari. Non meraviglia quindi che, come risulta da attendibili testimonianze, Piero Chiara non potesse proprio sopportare Guido Morselli. Sarà allora lecito ricordare che il grande romanzo, cui si deve l’appartenenza di Guido Morselli, come cittadino a pieno titolo e non come intruso da bandire o meteco mal tollerato, al territorio (e io direi anche al cànone) della letteratura italiana della seconda metà del Novecento, è “Il comunista”. Un testo straordinario che imposta, svolge e risolve, trasfondendolo senza residui nei personaggi di quel mondo sociale, politico e ideale, il problema etico-politico e filosofico del comunismo novecentesco; l’unico testo a cui si possa e si debba rinviare, secondo il mio modesto avviso, chiunque, fra i giovani e i meno giovani, intenda afferrare, grazie alla mediazione profonda, ad un tempo critica e partecipe, offerta dall’autore, la portata storico-epocale che, nel secolo scorso, ebbe il comunismo inteso non soltanto come movimento della classe proletaria, ma altresì come concezione della natura, della storia e dell’uomo: movimento e concezione di cui, osservandoli con l’ottica di un pessimismo esistenzialistico ed essenzialmente tragico, un borghese colto e sensibile come Morselli seppe riconoscere, insieme, le interne aporie, le feconde virtualità e l’umana grandezza.
      Così, per porgere almeno un esempio della problematica che è l’asse di quel romanzo, si pensi all’attacco cardiaco che coglie il protagonista, il deputato comunista Ferranini, mentre questi si trova negli ‘States’, durante una notte in cui infuria una tempesta di ‘blizzard’, all’interno di una cabina telefonica dove sta cercando di mettersi in contatto con una donna americana da lui amata e poi perduta: un episodio che, riletto oggi, assume una pregnanza sorprendente per il complesso di significati di cui ci appare gravido.

      Ecco perché, se si volesse indulgere al confronto sopra delineato, sarebbe fin troppo facile contrapporre al successo, forse effimero, che ebbe Chiara nel corso della sua attività letteraria, il riconoscimento postumo, certamente tardivo ma non arbitrario, che è toccato a Morselli. Per quanto mi riguarda, sono convinto che “Il comunista”, da solo, vale per lo meno tutta la produzione di Chiara.

      • claudio calzana Posted 31 Gennaio 2023 08:17

        Mi sa che tra i due corre la differenza tra narratore – Chiara – e scrittore – Morselli – che ho indagato sull’ultimo numero di “Just-Lit”. Solo uno scrittore come Morselli poteva esplorare la dimensione pandemica in largo anticipo con “Dissipatio H.G.”, solo un narratore come Chiara poteva rendere al meglio la communitas di appartenenza, con tutti i vizi e le umane miserie.

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