Mario Luzi, non tra i bambini

Mario Luzi (Sesto Fiorentino, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005).

Nel 1997 girava voce che, dopo Montale nel 1975, il Nobel toccasse di nuovo a un italiano, e sembrava che fosse la volta di Mario Luzi. La giuria svedese, invece, gli preferì Dario Fo. Luzi ci rimase male, non per la scelta in sé, ma per quel che rappresentava. Nel suo pregevole Dissipazioni Giuseppe Marcenaro scrive che per il poeta toscano quell’attribuzione rappresentava un «sintomo», «il tramonto della letteratura e della sua tradizione alta alla quale era stato fedele per tutta la vita». In altre parole: quale valore estetico e letterario ha un testo che richiede la mediazione di un attore, di un mimo e fantastico giullare? Dopo il clamore, Mario Luzi rientrò nei ranghi, al solito appartato. Certo, gli rimaneva un cruccio: con i soldi del Nobel, aveva confidato proprio a Marcenaro, avrebbe potuto rifare a nuovo la veranda sul terrazzo di casa a Firenze. Manco si rendeva conto di quanto è astronomica la cifra in questione. Altro che veranda, carissimo Mario. Scriveva guarda caso Giovanni Raboni in tempi non sospetti: «Credo che Mario Luzi non vincerà mai il Premio Nobel. Prima di tutto perché è un grande poeta e i grandi poeti che dal 1901 ad oggi abbiano vinto il Premio Nobel non sono (controllare per credere) più di cinque o sei. Poi perché non è mai stato perseguitato dal governo del suo Paese, non appartiene a una cultura “emergente”, non è il cantore di una minoranza oppressa, tutte cose che costituiscono – com’è noto – titoli di particolare merito agli occhi degli accademici svedesi. È, purtroppo per lui, un poeta italiano, cioè il “rappresentante” di una nazione che è sempre più difficile prender sul serio e che non è ancora possibile ascrivere al terzo mondo».

Quale Luzi, quale poesia
Nel 2004, a quasi 90 anni, il poeta viene proclamato senatore a vita dal presidente Ciampi, prendendo idealmente – ma anche fisicamente pare, nel senso dello scranno – il posto di Montale. In quegli anni Luzi era letto e rispettato, quasi venerato. Oggi meno, semmai viene citato per dar l’idea di averlo praticato. Ma quanto a leggerlo non credo. «Chi lo cita, chi stampa i suoi libri, dove sono le sue poesie, in formato economico, in antologie maneggiabili, chi lo scova in libreria?» si domandava Davide Brullo nel 2020. Oggi, 20 ottobre, sarebbe, anzi certamente resta, il compleanno di Luzi, e così mi son messo di lena a cercare una sua poesia per poterlo celebrare. Ho sfogliato il Meridiano a lui dedicato, a cura di Stefano Verdino, guidato dalle mie tracce di lettura e da qualche sgorbio a matita, che fatico a decifrare. Ma di Luzi ce ne sono tanti, diverse sono infatti le stagioni; e poi, non è poeta d’occasione, la sua scrittura è certamente tersa, ma al contempo ardita e sospesa, allude sempre a qualcos’altro che resti lì a chiederti che cosa; e poi: dal qui lui prende le mosse, certo, ma immediatamente lo trascura, e quel che appare descrizione è semmai vertigine, flusso che non trova requie e soluzione; infine, Luzi è il poeta dell’ascolto puro, dove la parola si fa semplice eco, quasi quella di uno scriba. Ecco perché i suoi versi sono oscuri, non sai se di presagio o di sutura. «Il poeta deve pescare in profondo», diceva spesso, accompagnando l’espressione con la mano che si spostava verso il basso come per accingersi a scavare. Lo ricorda Maurizio Cucchi, che lo frequentava spesso. Vabbè, dai, la faccio breve: tra le mille poesie ho scelto Non tra i bambini, tratta da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985).

Non ci provo nemmeno a fare la parafrasi, queste poesie sono in carta di riso, le rovini anche solo se le sfiori. Nemmeno sto a farvi notare i sapienti enjambement, le parole che sole vanno ad abitare il fondo della riga, come a dire leggimi bene, soffermati, vorrà pur dir qualcosa se rinvio; una rima interna, come in Gozzano, e tutte le infinite e minime allusioni. No, dai, stavolta facciamo un altro giro. Di quelli, per capirci, che lo stesso Luzi così intende: «Lo studio vero di un autore è crescita sottile e silenziosa dello studioso». E, a questo punto, spero anche del lettore.

Passaggi segreti
Sono la bellezza di 40 le poesie di Luzi che, come questa, esordiscono con “Non”. E per l’appunto non è un caso. A me pare che, fin dalla negazione prima, il poeta indichi dove è bene guardare, ovvero dove è meglio lasciar stare. In questo caso, Luzi ci guida tra i bambini, anzi esorta ad essere, evangelicamente, bambini come loro, in chiave non semplicemente ludica, banale, quanto originariamente creaturale. Cosa per noi complessa, perché siamo fuori portata: vuoi per intenzioni, la vita adulta tutt’altro che pacifica; vuoi per altezza elementare, che bisogna farsi piccini, o meglio: star lì «ai piedi della loro crescita», «all’ombra della loro statura prossima» che allude allo «straripante desiderio», e non certo in un qualsivoglia suo «travestimento». Il desiderio va lasciato aperto, ammonisce Luzi, non soddisfatto con questa o quell’altra cosa, quieto per quell’oggetto o cibo, manco fosse semplice fame. Eh, no, l’uomo è animale che desidera, che sa e vuole andar oltre sé stesso, in direzione del possibile, del non ancora avvenuto; proprio per questo, e guarda caso, invece di prender di mira il futuro, quello son capaci tutti – cosa vuoi fare da grande, piccolo mio? – il poeta invita al non ancora, al prima, perché più avanti nella vita quel desiderio là si perde, o peggio si frantuma. L’uomo lo soddisfa in briciole, e se lo dimentica per via; ovvero s’appaga di illusioni, vedi alla voce sabato del villaggio, e poi quel che ha atteso con trepidazione lo delude. Rispetto a Leopardi, ma anche Caproni per dire, Luzi va oltre, travalica il pessimismo cui la ragione induce. Il poeta toscano invita a prestare gli occhi al non ancora compiuto: «il prima della primavera» è per essenza la cosa stessa, il noumeno più esatto, atteso che il fenomeno lascia sempre a desiderare. Appunto. Come Luzi arrivi dai bambini alla primavera non lo so – la prima età si sposa con la stagione prima, d’accordo – ma quel che conta è come ci arriva: in effetti, nelle sue poesie si aprono certi passaggi segreti che ti devi impegnare per scovare il meccanismo. Leggo e rileggo, poi lascio stare e mi basto alle parole. Certo, in quel «prima» evocato e così bello, Luzi vede una vetta sorgiva, una meraviglia creaturale che non dobbiamo mai perdere di vista. Sennò, come per il desiderio, ci contenteremmo giusto della mensa quotidiana, della biada. No, anzi: non.

Febbre
Scavalco, e quasi mi fa male, sia «luce piovigginosa» che «fabbriceria di gemme», ma dove le avrà pescate queste mirabili aperture? Come un mistico del Trecento, Luzi fa spazio in sé per poter accogliere visioni precluse a noi mortali. Per alloggiare degnamente un ospite, diceva Meister Eckhart, prima devi liberare casa tua da tutto quanto ingombra ed eccede. In questi versi la primavera è per essenza, intatta e pura, incanto e meraviglia. Non va intesa come semplice rinascita, le rondini sotto il tetto, il cambio armadi, nemmeno la stagione gentile ovvero la crudele. No, la primavera è nel suo stesso annuncio, minimo e fugace, in forma di presagio o mistero. Qui sta il riscatto, unico e migliore, qui la redenzione dal dolore che comunque prende se ti fermi disperatamente a ragionare. Già, ma che cosa c’entra quella «febbre» del finale? Forse è il monito ultimo del poeta, che ci invita di nuovo a quel «prima», prima che qualcosa, semplicemente, accada, Oppure è lo Streben dei tedeschi, l’anelito, la tensione ad andar oltre e superare. Magari è febbre di un desiderio che rimane aperto, tempra di un uomo non si contenta di questa o quella provvisoria soluzione, semmai infinitamente cerca e chiede. Chi lo sa, vallo a capire. Che poi, a legger bene, la «febbre alta» continuamente sale: fisicamente, accade nel bambino proprio quando cresce: un febbrone ed ecco il corpo che si allunga, le braghe improvvisamente scoprono il tallone; metafisicamente, accade nell’uomo che lascia correre lo sguardo a quelle stelle che del desiderio sono la prima immagine e ragione. Come scrive Daniele Piccini in Luzi, il poeta si sporge dall’opacità del presente, dalle contraddizioni e scorie della storia verso «la verticalità di una evocazione sempre enigmatica, sempre imminente». Imminente e mai perfettamente compiuta, eppure serenamente attesa. Con la gioia di chi ha scorto, per un attimo, la meraviglia di quel che non si è ancora compiuto, e lì si risolve a stare, con la pace negli occhi e nel cuore.

«Preferisco che si pensi a una specie di riacquisto della semplicità, una semplicità che vorrebbe essere iniziale, quella appunto del principiante. Il cui mondo è integro nel suo mistero, come poi tale rimane nonostante tutto. Anche avendo fatto molte altre esperienze, alla fine, il mondo, la vita e il complesso dei fenomeni fisici mostrano questa meravigliosa e anche terribile incognita di fronte alla quale il grado più alto di maturità che possiamo aver raggiunto è l’umiltà: quell’umiltà degli uomini che si siano convinti di avere un limite molto piccolo, di essere creature diverse ma analoghe a tutte quelle che popolano il pianeta. Non so dunque se questa è una sintesi o una summa. Certamente è un passaggio. Ed è quanto ho realizzato nel ritrovare la semplicità del primum». Brano tratto da Gianni Bonina, A scuola di “principianza” con il poeta Mario Luzi, RaiCultura.


Qui invece mi occupo di Giorgio Caproni.

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