Giorgio Caproni, lo specchio d’Enea

Francesco Baracca, Enea (1726)

Siamo nel 1948, a Genova. In piazza Bandiera, tra gli edifici sventrati dalle bombe, Giorgio Caproni incrocia una statua miracolosamente intatta. L’opera di Francesco Baracca raffigura Enea con il padre sulle spalle e Ascanio per mano. È una rivelazione, immagino il poeta trattenere il fiato, trafitto dalla visione e il suo richiamo. Caproni si riconosce in quell’Enea scampato da una guerra carica di lutti, esito di un passato pesante come quel padre, che incarna decisioni che hanno condotto al massacro. Il bimbo, fiducioso per mano, lo riporta ai due figli piccoletti, alla necessità di provvedere loro al meglio. Anni dopo, definirà quella statua «quanto di più commovente io abbia visto sulla terra».  

Eneide

A lungo ragionata dal poeta, l’Eneide presiede all’agnizione: nel secondo libro, al padre che voleva restare perché «perdita lieve è un sepolcro» rispetto a una vita che continua oltre la resa, Virgilio fa dire a quel figlio: «E dunque su, caro padre, sollèvati sopra il mio collo, | ti porgerò le mie spalle, e non mi sarà di fatica. | Quali che siano gli eventi, uno solo e comune il pericolo, | una sarà la salvezza ad entrambi. A me il piccolo Iulo | venga compagno, e a distanza sorvegli le tracce la sposa.[…] | Tu, padre, prendi gli oggetti sacri e i patrii Penàti; | io, che ora vengo da tanta guerra e strage recente, | commetterei sacrilegio a toccarli, finché non mi sia | con acqua viva purificato» (Virgilio, Eneide, traduzione di Alessandro Fo, Einaudi, pag. 89).

Giorgio Caproni (1912-1990)

Il passaggio d’Enea

A confronto con il testo di Virgilio, prendiamo la terza poesia de Gli anni tedeschi, silloge presente ne Il passaggio d’Enea, raccolta composta da Caproni nella dozzina d’anni compresi tra il 1943 e il 1955: «Io come sono solo sulla terra | coi miei errori, i miei figli, l’infinito | caos dei nomi ormai vacui e la guerra | penetrata nell’ossa!… Tu non hai udito | il mio tranquillo passo nella | sera degli Archi a Livorno, a che invito | cedi – perché tu o padre mio la terra | abbandoni appoggiando allo sfinito | mio cuore l’occhio bianco?… Ah padre, padre | quale sabbia coperse quelle strade | in cui insieme fidammo! Ove la mano | tua s’allentò, per l’eterno ora cade | come un sasso tuo figlio – ora è un umano | piombo che il petto non sostiene più».

Il tempo presente, scrive Caproni, è eterna confusione, guerra che ancora perdura se non nei fatti, certamente nei cuori; sovviene al poeta quel tempo felice della sua città prima, Livorno, dove non v’era presagio di lutto. Ma d’improvviso ecco che l’occhio del padre si sbianca, la strada percorsa insieme cancella e svanisce, anche Enea s’accascia disfatto, si fa «umano piombo», il petto sfinito, i Penati forse dispersi per via. Nella medesima raccolta troviamo una variazione sul tema che rafforza l’intensione: «Enea che in spalla | un passato che crolla tenta invano | di porre in salvo, e al rullo di un tamburo | ch’è uno schianto di mura, per la mano | ha ancora così gracile un futuro | da non reggersi ritto» (Versi).

Enea è figura tragica e immensa, che s’immola nel farsi cerniera tra un passato troppo grave e un futuro troppo gracile, esile gemma che rischia di non farsi mai fiore. La fatica prende l’eroe, gli toglie il fiato e la voce; così il poeta, che nell’Epilogo del Passaggio d’Enea fa sua questa stanchezza immedesimandosi con il timoniere di Enea, Palinuro, tradito dal dio Sonno (corrispondenza segnalata da Alessandro Fo): «Avevo raggiunto la rena | ma senza avere più lena. | Forse era il peso, nei panni, | dell’acqua dei miei annI».

Un incendio di versi

La visione della statua d’Enea ha scatenato un incendio di versi, il poeta si è fatto «pastore di parole» e si è affidato un compito preciso: «E tu ancora | chiuso nella tua stanza, inventa l’erba | facile delle parole – fai un’acerba | serra di delicato inganno, all’ora | che opprimendoti viva a un tratto serba | per te il lamento che il petto ti esplora» (Gli anni tedeschi, XI).

Caproni qui si riferisce all’arte sua, la poesia: sa che la scrittura non è che finzione, l’amore nient’altro che una «debole siepe» (Cronistoria, XVIII). Pur esiliato «a una contraria vita» (Il passaggio d’Enea, VII), il poeta non volge lo sguardo altrove, non cela i tormenti della sua esistenza e del tempo presente. Piuttosto, trattiene con cura ricordi e dolori per poi esporli in forma di parola, dando così corso e corpo al «tenero lutto». Un nuovo viaggio si annuncia, verso nuovi lidi e volti, verso un’epoca – e un’epica – nuova, non deturpata dalla storia e dalla guerra. Caproni trova qui il coraggio di azionare nuovamente quel certo suo «pedale melodico», sia pur in un tempo flagellato ove «… scompare | dal mondo la pietà, ultimo | asilo all’affanno dei deboli» (Le biciclette). Ecco allora che «…altro pedale | fugge sopra gli asfalti bianchi al bordo | d’altr’erba millenaria – un altro mare | trema di antichi brividi sull’orlo | teso d’altre narici, in altro viso | scolorato cercando chi non fu | storia, ancora conclusa, anzi un di più | nel tempo ancora intatto e indiviso» (Le biciclette).

In Caproni, come ben segnala Pier Vincenzo Mengaldo, non c’è spazio per il simbolo o l’idillio; d’altronde, il poeta livornese non è, né vuol essere, impegnato nel senso militante del termine: basti pensare che “traduceva” la parola engagement in encagement (imprigionamento), e che nelle sue opere preferiva impiegare termini tratti dalla più schietta quotidianità: biciclette, bar, latteria, ascensore, ottone, osteria, scrittoio, tende e fanali…. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, Caproni ci addita con forza la statua di Enea, miracolosamente scampata alle bombe, e ci invita a metterci in viaggio, sempre e di nuovo, anche se a rischio di nuovi naufragi e rovine: l’uomo è condannato a questo infinito viaggiare. Sovviene il Nietzsche della Gaia scienza con il suo «Via sulle navi, filosofi!», a completare il periplo della morale (fr. 289); sovviene Alfonso Gatto, quando scrive: «… nel mio rischio | di vivere riscopro il necessario».

Noi, Enea

Oggi, sempre più direi, abbiamo bisogno di incontrare Enea in forma di agnizione. Ma dove cercare? Non certo nelle figure di successo e copertina, che ci hanno condotto in questo vicolo cieco di grazia. Qualcuno indica i profughi in cammino, ma attenzione: i migranti sono sì in viaggio, in fuga tra mille sofferenze e tragedie, ma la meta è la terra promessa che illude e rovina, votata com’è al consumo permanente effettivo. E allora? Certo Enea è da intendersi figura in movimento, non stanziale; al contempo, la sua vicenda ci riguarda da vicino. Enea allora va forse cercato dentro di noi, ovvero dobbiamo farci tutti Enea, con quel padre sulle spalle, il figlio per mano. Se vogliamo dar speranza a un nuovo inizio, forse è venuto il tempo di incarnare Enea nella nostra quotidianità più elementare: qualche gesto nobile e sincero, piccole provvidenze, scelte di campo nette, reciproco conforto e cura. In questo presente così modesto e brullo, Enea non può essere un io, ma dev’essere un noi. Ce lo suggerisce Caproni stesso in forma di monito e ricordo.

«Io ho girato molte città d’Italia, ma Enea non l’ho conosciuto altrove. Perlomeno non ho incontrato l’unico Enea possibile, l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine e nella sua umanità. L’unico Enea insomma che meritava davvero un monumento in mezzo a una piazza, simbolo unico di tutta l’umanità moderna, in questo tempo in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento». (Noi, Enea, apparso ne «La fiera letteraria», 1949).

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Le poesie di Caproni qui citate sono tratte da Giorgio Caproni, L’opera in versi, Meridiani Mondadori, III edizione, 2000. Edizione critica a cura di Luca Zuliani. Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo. Cronologia e Bibliografia a cura di Agnese Dei.


Ancora in tema con sette poeti in riva al mare.

3 Commenti

  • Gioacchino Posted 15 Gennaio 2022 08:19

    Enea è una figura di grandissima attualità, merito di Caproni averlo intuito oltre 70 anni fa. La letteratura del 900 è più attenta a Ulisse, che esemplifica le vicende individuali dell’uomo contemporaneo; ma Enea, proprio per quel che lei scrive, è esprime meglio le sorti della nostra civiltà nel suo complesso, non solo e tanto dell’individuo quanto del genere umano

    • claudio calzana Posted 17 Gennaio 2022 13:05

      Concordo su ogni parola che ha scritto, caro Gioacchino. Le rivelo un piccolo segreto: c’è un personaggio apparentemente minore del mio primo romanzo, “Il sorriso del conte”, che si chiama proprio Enea, e non Ulisse come magari sarebbe stato più consono alla vicenda narrata. Il motivo? Proprio quel che lei ha così magistralmente sintetizzato.

  • Paolo F. Posted 7 Gennaio 2022 16:05

    Ammetto che conosco poco Caproni, il suo articolo mi ha spronato a leggerlo come si deve. Grazie

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