La penna è il sismografo del cuore

Vedete, solo la narrativa è in grado di fotografare i momenti di passaggio tra due epoche. Lo scrittore vero possiede in dote uno strumento interiore che gli consente di intercettare vibrazioni e cambiamenti attorno a lui. Lo diceva Kafka, mica il primo che passa: «La penna è solo un sismografo del cuore. Si possono registrare i terremoti, non prevederli» (Gustav Janouch, Conversazioni con Kafka).

Mozziconi

Prendete Delio Tessa, uno dei miei scrittori preferiti. Ne La bella Milano di Quodlibet, una scena di inizio Novecento. «Il parco ha pure i suoi lavoratori. Li vedi sulle panchine seduti a cavalcioni, l’uno all’altro di fronte. In mezzo sta un mucchietto di tabacco. Quello di qui disfa i mozziconi delle sigarette raccolti per via, libera il tabacco dai residui della cenere, dalla carta velina e lo mette in mezzo; quell’altro di là ricostituisce le sigarette. “Le fumano loro o le vendono?” ho chiesto. “Le vendiamo”. “E come va il commercio?” “Così, così. Una volta discretamente, ma ora non tanto; per terra in strada, si trova sempre meno. Non buttano via più niente. Fumano tutto fino a bruciarsi le dita». Ecco, da un periodo in cui sigaro e sigaretta si abbandonavano prima del termine, con una certa malcelata degnazione, a un’epoca di maggiori ristrettezze, dove nulla è lasciato a chi campa di questi rimasugli. La Belle Epoque è definitivamente tramontata.

La donna tipo 3

Le cose cambiano, e in fretta. Se ne accorge Umberto Notari, che nel 1929 descrive un nuovo tipo di donna, la “tipo 3”, quella che non si identifica né con la timorata madre di famiglia, né con la vituperata prostituta dei bordelli. «Quante saranno oggi in Italia le donne “tipo tre”? L’ultimo censimento economico ha fissato a oltre settecentomila le aziende industriali e a più di un milione le aziende commerciali. È molto difficile che le amministrazioni di coteste aziende non si valgano dell’opera femminile per la dattilografia, la contabilità, l’archivio, il magazzino, la vendita. Calcolando dunque la media minima di una impiegata o di una commessa per ciascuna delle aziende industriali o commerciali esistenti in Italia, si ha una prima falange di donne “tipo tre” costituita di un milione e settecentomila unità». Attenti, dice il Notari ne La Donna “Tipo tre”, le donne che si stanno facendo strada da sole, sono tante, una vera falange, per Giove. Falange, il termine ci ricorda che Mussolini è al potere da 7 anni.

Nebbia

Certo, tutto cambia in fretta, ma ci sono anche elementi che rimangono identici nel tempo, salvo poi sparire non sai bene perché: la nebbia, ad esempio, ha abitato la Pianura Padana fino a qualche decennio fa. «Venendo fuori dalle finestre lunghe, strette e uguali delle cantine, dai canali, dai fossi, dai mucchi di immondizie e di concime, prima diffidente, a brandelli che ora si allungavano, ora si rapprendevano, poi via via più densa, crudele e aggressiva, fin dalle prime ore della mattina la nebbia aveva preso a fasciare gli ultimi casamenti, grandi, tetri ed uguali e, tra casamento e casamento, le strade, le case più modeste, i segnali di fermata dei tram, le insegne al neon dei caffè e dei negozi, i muri corrosi dal salnitro, i capannoni, gli orti, le siepi, le cascine e i sentieri che da quell’ultima parte della città davano nella prima parte della campagna; […] e, infine, aveva coperto dentro di sé ogni cosa: dai marciapiedi alle antenne rade e solitarie delle televisioni, dalle foglie e dai rifiuti dei mercati, che si erano ammassati ai bordi dei marciapiedi e vi marcivano in silenzio, ai grovigli dei fili». Questo è l’incipit di Nebbia al Giambellino (di Giovanni Testori, Longanesi 1995, postumo), evidente controcanto manzoniano. Fino a qualche decennio fa la nebbia era il marchio di fabbrica della Pianura Padana, la faceva da padrona sia in campagna che in città. Trovando i giusti intenditori, la si sarebbe potuta esportare ovunque, nebbia così non la trovavi da nessuna parte.

A Milano

Restiamo nel capoluogo lombardo. Nei mesi che seguono la Liberazione, Carlo Levi così descrive una città affollata ed euforica (L’Orologio, 1950). «Dei giovani si fermavano a comprare le sigarette. Le toccavano, le palpavano, le annusavano. “Saranno vere, o di isola Liri?” Le automobili correvano, in lunghe file disordinate, con i motori urlanti sulla salita, lo scappamento aperto, e in mezzo a loro passavano carretti e biciclette scampanellanti. La strada era piena di gente, gomito a gomito, camicette d’estate, soprabiti pesanti, scialli, fazzoletti, cappelli, stracci, giacche militari alleate, sandali, scarponi; donne formose che muovevano i fianchi e lanciavano occhiate, vecchie attente alle vetrine, ragazzi agitati e sporchi che correvano a chissà quale gioco o baratto, soldati americani, inglesi, italiani, negri; operai in tuta, impiegati usciti allora dalle banche o dai ministeri, pronti a saltare sulle camionette sgangherate; tutti si muovevano, gesticolavano, guardavano con occhi neri e brillanti, pensavano, parlavano, gridavano, seguendo e contemplando con visi intenti, pieni di intensità e di carattere, la loro avventura quotidiana. Ed essi stessi, insieme, erano un’avventura; un fiume indifferente, fatto di mille onde sempre nuove, tra rive rocciose e isole fiorite». Il brano di Levi, non a caso scrittore e pittore, richiama un quadro impressionista, fatto di luce e colori, senza tratti di nero a distinguere case corpi macchine vetrine. Dopo un’epoca di restrizioni e saluti a braccio teso, la folla si scompone e torna a vivere. Ma l’aggettivo che chiude la scena, “indifferente”, ci fa intuire che gli ideali della Resistenza se ne sono andati, dispersi e vaghi nella confusione che la folla esprime.

A Torino

Ne La Favorita (Mondadori 1945), diario di viaggio di Giovanni Comisso, i giorni sono sostanzialmente i medesimi evocati da Levi, ma città e approccio sono differenti: «…solo quando m’accorsi del suo umile collare fatto d’un vecchio spago capii che era un cane del popolo non avezzo ai dolciumi: un cane felice di povera gente. E quel prato altro non era che un sublime simbolico dolce domenicale per la povera gente, a renderla felice. […] Nel parco si svolgeva invece una grande corsa d’automobili e qui stava stipata e opprimente sull’erba e sulle piante tutta l’altra folla, quella che aveva lasciate le strade quasi deserte, la solita folla, quella di tutte le grandi città, informe, piatta, monotona». Quel che Levi ritraeva con un unico sguardo, in Comisso si frange in due folle diverse e distanti: quella popolare, che si diverte con poco o nulla, cui basta condividere un prato per fare festa, e quella dei signori, che ha ben altra disponibilità, ma finendo poi per omologarsi in piaceri frivoli e alienanti. Di lì a qualche anno, il boom economico illuderà molti di poter colmare il divario a forza di cambiali.

La televisione

Concludiamo con un aspetto che cambia radicalmente la vita degli italiani, l’avvento della televisione. «Sono le otto e mezza. Vedo persone a centinaia, che, coi libretti nelle mani, stanno andando a vedere Il trovatore con Tito Schipa. Io le sere le passo in una saletta della pasticceria Tinco, a guardare la televisione. Quando entro, tutte le sedie sono occupate. La cameriera me ne passa una, e io mi siedo vicino ad Attilio e a Giuseppe». L’immagine, quanto mai suggestiva ed esatta, la troviamo ne Il calzolaio di Vigevano, di Lucio Mastronardi (Einaudi 1959). Siamo agli albori della diffusione del mezzo, di lì a poco la televisione avrebbe imposto un immaginario nuovo di zecca, sostituendo quello nobile e antico dell’Opera italiana.

Muratori

Infine, immaginiamo un narratore che fra qualche decennio si trovi a raccontare il nostro presente. Ecco un ipotetico testo ambientato nell’era del lockdown. «Nel silenzio rarefatto tra le case, cresce l’impalcatura di un prossimo cantiere. Voci indistinte di muratori, si direbbero slavi, fanno concorrenza alla ferraglia, all’impeto svelto delle chiavi. Come a Babele, ogni richiesta e ordine appare insulto, maledizione». Con queste parole, forse, lo scrittore di domani fotograferà la definitiva scomparsa del muratore bergamasco.


Un’intera epoca di passaggio nel romanzo di Alfredo Panzini, Il padrone sono me

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