In camporella

René Magritte, L’impero delle luci

Ci voleva l’ultimo libro di racconti di Davide Bregola (Nei luoghi ideali per la camporella, Avagliano editore, 2022) per rendermi conto che camporella si declina al femminile. Non ci avevo mai pensato, giuro. In quanto luogo, il termine per me era semplicemente preceduto da una preposizione, in. Ecco, se proprio proprio ai tempi mi ci fossi interrogato, avrei interpretato la locuzione “andare in camporella” come un moto a luogo per fare del piacevole moto in luogo. Come avranno inteso anche i meno avvezzi, “andare in camporella” significa appartarsi in un luogo abbastanza ascoso e remoto da non temere occhi indiscreti o importune interruzioni. Precisa Bregola: «La camporella è sia uno spazio campestre, un campicello, sia un luogo per stare appartati ad amoreggiare in santa pace» (141). D’altronde il termine deriva da campora, antico plurale di campo. Chi più, chi meno, tutti si andava in camporella quando ero giovane io; e ovviamente anche prima. Sentite cosa scrive Lucio Mastronardi ne Il calzolaio di Vigevano (1959): «Mario insisteva. Andiamo a Ticino in camporella nei boschi. Tornare giovani. Gli venne in mente una scappata che aveva fatto ragazzo, l’unica, con una morosetta, proprio nelle boscaglie di Ticino. “Ma c’è di là il letto!” disse Luisa. “Dam da tra’, andoma. Ti troverai contenta». E sentite che cosa ha combinato l’artista Francesco Fossati nel 2016: a Milano, nel Parco Nord, si è divertito a impaginare su un cartello la presunta relazione di Hemingway con una ragazza del posto. È tutto finto, sia chiaro, ma suona deliziosamente vero.

L’opera di Francesco Fossati

Con passo devoto
Oggi non so come funzioni, credo proprio che la camporella sia fuor di conio, come la lira. Ed è proprio per questo che Bregola la pone a insegna del suo recente volume, quale simbolo esatto di quel mondo che da anni viene narrando. Perché nei luoghi ideali per la camporella ci si può andare mica solo per guzzare, ma anche per altre mille avventure e ragioni, quelli son posti magici, ti sintonizzi per bene e vedrai che qualcosa succede. Per averne conferma basta una scorsa all’indice del libro, da Acquaragia a Voci, o la Nota conclusiva, un vero e proprio manifesto poetico: «Non vedo altri spazi da esplorare e poter raccontare. Non sempre sono riuscito a conciliarmi con questi luoghi ma sono quelli a me più congeniali» (141). D’altronde Bregola è fatto così: se annusa una faccenda giù di moda, non più praticata, ovvero poco considerata e negletta, proprio lì s’avventa e sgrufola, scava per bene per levarle la terra d’attorno, e poi esibisce il raccolto, felice come un bambino con un sacco di biglie, e magari qualche ciccone. Predilige quel che non si arrende al nuovo che avanza – anzi: resiste, perdura, rimane. E in quel lembo di terra che si è eletto a dimora, lì tra Mantova e Ferrara, con Sermide a capitale, forme di resistenza e voci siffatte ce ne sono una sfracca, e son tutti Tesori, proprio come suona il titolo del racconto più lungo del lotto. In quei luoghi fuori mano e sbilenchi, tra nebbia «che fa andare palponi» (97) e gente che parla coi morti, c’è un’oasi di queste faccende: son lì che pulsano ancora, vitali. Sarà per via delle anse dei fiumi, di certi spazi raccolti, di quei tipi bislacchi e scurrili, dei miti che s’incistano e guai se li schiodi, facilmente per quell’economia marginale che non scatena chissà quali appetiti o richiami. «A guardarla da una cartina dell’Italia, il pezzo di terra a sud-est della Lombardia pare un’ernia saltata fuori per un lungo sforzo o, peggio, potrebbe sembrare un’appendice infiammata che qualcuno vorrebbe estirpare» (105). Bregola percorre quei posti con passo devoto, scova storie e le narra per quello che sono: il segno che forse non tutto è perduto. Almeno fin quando ci sarà qualcuno cui «piacciono i soprannomi, i maghi e gli ipnotisti alle sagre di paese, le giostre durante la fiera del patrono, i negozi di paramenti sacri e l’oggettistica religiosa»: qualcuno che ama «scrivere lettere a mano, mandare cartoline dai luoghi di villeggiatura» (142). Italia minore, Italia migliore.

Per le antiche strade
Bregola ha i capelli bianchi da mo’. Sospetto che sia una vocazione mimetica, altrimenti certe meraviglie gli negherebbero l’accesso, o più semplicemente non si farebbero trovare. Anche la memoria avrebbe da ridire se lo trovasse sgarzulo e sfrontato. A proposito: vogliamo parlare di certe sue magliette a righe? È roba che andava di moda cinquant’anni fa, altro capolavoro di mimetismo del Nostro. Come a dire: «Vengo da un passato sano, anzi a momenti sono fuori dal tempo, quindi sono praticamente perfetto sotto ogni aspetto, proprio come Mary Poppins». D’accordo, ma un quesito mi resta: «Caro Davide, gli angoli di mondo che ti ostini a narrare, un po’ come i ricordi, son qualcosa che ti appartiene o che hai, anzi abbiamo, perduto per sempre? E poi: raccontando la tua terra, sia pur per farne memoria, non rischi di suscitare un turismo balengo, che per gusto d’agonia va giusto in traccia di quel che scompare?». Siccome qui Davide è assente giustificato, vi dico la mia. Io credo che Bregola sia l’onesto e squisito cantore di un mondo altrimenti perduto: con mano sapiente raccoglie e dispone i suoi tesori, non servono poi chissà quante parole per saggiarne il valore. Questo suo cosmo è lento e fuori dai giri, imprevedibile e cocciuto, acquatico e terroso, cortese e sospettoso, minimo e vivace, in disuso e dunque sperduto, lieve e greve in egual misura. In una parola: bello. Ecco, con questo suo libro Bregola invita ciascuno di noi a imitarlo, a salvaguardare qualche cimelio che annaspa, persino il semplice vuoto, convinto com’è che basta uno sguardo per salvare l’antico che scricchiola e cede, soffocato dal nuovo che avanza. L’estetica di Bregola è faccenda che sgorga dagli occhi e dal cuore, è variante padana della pietas latina, che si fa retaggio e passione: «Non tutte le strade mi parlano, ma quelle di paese, le strade di campagna, quelle che finiscono contro un pilone o a ridosso di un traliccio sono più loquaci di altre. […] Cammino e mi sembra di calpestare secoli passati, fondamenta, tombe e ossa, legno seppellito da smottamenti, edificazioni. […] Quelle a cui sono più affezionato sembrano essere anonime vie di passaggio da un nulla verso il niente, prima di scorgere qualcosa all’orizzonte» (56).

Davide Bregola

Argini, fossi e tesori
Camporella è dunque metonimica porzione di un intero che è ben saldo nei precordi dell’autore, un mondo forse smarrito, magari semplicemente evocato. Si veda, a riprova, l’incipit di Fossi: «Io passavo giornate intere a guardare nei fossi perché nei fossi c’era tanta di quella roba da stare lì all’infinito. Bolle emergevano dall’acqua ferma, sbuffi impercettibili della terra bagnata, vicino alla proda. Pesci che boccheggiavano e ti guardavano negli occhi. Se riesci a sostenere lo sguardo di un carassio avrai la chiave per accedere alla saggezza. Nei fossi c’era una brodaglia primordiale, verde e grassa, fatta di flora ittica, al cui interno girini neri sembravano macerarsi prima di fare la metamorfosi e diventare rane. L’origine della vita era nei fossi. Soprattutto nel bugno del bosco poco lontano da casa. Guardare fossi e pensare alla vita» (119). Come l’orizzonte in calura a momenti si scioglie, la scrittura si sporge e traballa, si fa acqua terra fango e vita, accarezza le cose che ama; la parola – e il dialetto non è certo esente – insinua richiami leggendari, mai sinsigati fino in fondo, che altrimenti li rovini. Un sacro fuoco, insomma, che l’autore ora alimenta, ora ravviva, roba da magico Alverman, per chi se lo ricorda. Che ci volete fare, Bregola è fatto così: «Mi piace tutto ciò che è off topic: i pozzi, i fossi, la strada asfaltata, le persone che scavano, i paesini senza attrazioni storiche, i tipi un po’ idealisti che salvano animali da morte sicura, gli argini» (142). Eppure questo viandante, che percorre la pianura, dapprima s’intrattiene e curiosa, poi esita, infine s’arresta e trasale. La posta in gioco è alta, cari lettori, quasi abissale. Ne va della speranza, della specie umana, perché la vita che ci spetta in dote ha il triste profilo di un Hangar, titolo dell’ultimo e apocalittico racconto della serie. Se è quel mondo lì che volete, accomodatevi pure: sarete tutti Cavie (altro racconto inquieto), anzi magari già lo siamo. Perché l’elegia va bene, ma non quando si fa sterile nostalgia del prima e disperata afasia del poi.

Un varco
Adesso mi levo di torno e lascio il passo a chi molto per tempo ha compreso il rischio cui andiamo incontro. I versi di Mario Luzi sono un viatico essenziale, ma anche un monito e sigillo, un emblema completo di figura. Un varco di speranza e di misura.

Vorrei arrivare al varco
con pochi essenziali bagagli,
liberato da molti inutili,
inerziali pesi e zavorre
di cui l’epoca tragica e fatua
ci ha sovraccaricato, noi uomini.
E vorrei passare questa soglia
sostenuto da poche,
sostanziali acquisizioni
di scienza e di pensiero
e dalle immagini irrevocabili
per intensità e bellezza
che sono rimaste
come retaggio.
Occorre, credo, una liberazione,
una specie di rogo purificatorio
del vaniloquio
cui ci siamo abbandonati
e del quale ci siamo compiaciuti.
Il bulbo della speranza
che ora è occultato sotto il suolo
ingombro di macerie
non muoia,
in attesa di fiorire
alla prima primavera.



Uno scrittore della stessa pasta di Bregola, Luigi Meneghello; e una recensione in forma di missiva a Oceano padano di Mirko Volpi.

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