Quante storie per una remora!

Carlo Emilio Gadda si definiva scrittore anticipista e remorante. Il primo termine richiama il fatto che, spinto da perenni e «miserrime configurazioni argentarie», l’ingegnere era solito chiedere anticipi mensili sui diritti di romanzi che giurava e spergiurava di consegnare a brevissimo, cosa che regolarmente si guardava bene dal fare. L’attitudine deriva dall’altro termine, remorante, che indica quel che arresta o impedisce il movimento. Pur lavorando come un matto, infatti, Gadda aumentava a dismisura le varianti, senza mai terminare i suoi lavori; fino a quando – sfinito lui, sfiniti soprattutto gli editori – abbandonava l‘opera al suo destino, ma con un senso di colpa grosso così. Gadda marciava sul posto senza mai raggiungere la meta, sempre un passo indietro rispetto alla tartaruga, come il Pelide Achille. A Gadda sarebbe magari piaciuta la variante stasiota, termine che al tempo Aristotele affibbiò a Parmenide e soci, perché a forza di vedere solo l’essere si perdevano per strada il movimento. Mica per niente ancor oggi in greco stasi indica la fermata del tram.

Remorante vien da remora, che come stasi vale blocco, ostacolo, freno. Avere delle remore significa evitare di compiere una scelta perché ci si sente frenati da qualche scrupolo d’ordine etico o pratico. L’origine del termine è latina, ma è bene ricordare che remora è anche un pesce che, grazie a una ventosa posizionata sopra la testa, si aggancia sotto “colleghi” di cospicue dimensioni – meglio se squali, così la difesa è assicurata – e si fa bellamente trasportare per i mari. Insomma, viaggia a sbafo, rallentando l’incedere dell’ospite, salvo sganciarsi quando arriva a destinazione. In cambio del passaggio, ripulisce il pesce maggiore da crostacei e altre incrostazioni.

Gli antichi erano altresì convinti che, per quanto piccola, se si fosse attaccata sotto la chiglia di una nave la remora sarebbe stata in grado di trattenerla, e persino di di piegare le vele delle navi, come diceva Lucano. In quanto “ritardante”, lo ricorda Borges nel suo prezioso Manuale di zoologia fantastica, il pesce in questione secondo Plinio veniva impiegato per prevedibili fatture amatorie, piuttosto che per rallentare il corso della giustizia, che ai tempi, si vede, marciava bella spedita. In spagnolo, dice Borges, remora è il pesce, con tutto il bagaglio delle sue accezioni, la metafora segue a ruota nel parlato. Nelle sue Etimologie, Isidoro di Siviglia sostiene al contrario che dall’espressione greca che la remora deriverebbe il suo nome dall’espressione greca eche-naus “tenere saldamente”, appellandosi pure al latino mora, ritardo, per dare un’ulteriore spinta alla sua tesi. Oltre al significato base, dunque, remora è volta volta un turista parassita, un “blocco navale” e un ritardante naturale ad ampio spettro.

Nel Rinascimento, il racconto di un animale capace di astuzie e mirabilie era raffigurato negli emblemi. La remora compare nel 49 dell’Alciato, titolato Su quelli che rinunciano facilmente alle virtù. Qui l’immagine ordinaria e il suo senso metaforico vengono mirabilmente congiunti grazie al connubio tra immagine e testo.

 Piccola come una lumaca, la remora, incurante dell’impeto 
 del vento e dei remi, può da solo fermare una barca, 
 così una causa di poco conto trattiene a metà cammino 
 coloro che per virtù e ingegno s'avanzano verso le stelle. 
 È come una controversia subdola, la passione per le meretrici, 
 che distoglie dagli studi i giovani più promettenti.  

La questione dunque non era, e non è, se credere o meno a tanta stravaganza, ma se la storia lasciava o meno il segno. Se il mito si imponeva coram populo, facendosi moneta corrente, qualche anima bella ideava usi nuovi e immaginari del termine, reinventandolo per l’occasione. E allora ecco Manzoni, inteso come Alessandro, convinto che sia sempre opportuno «metter qualche remora a nuove precipitate soluzioni»; ovvero Calvino, inteso come Italo: «Doveva percorrere un tratto della via principale, che di solito, per una sua confusa remora, evitava» (La speculazione edilizia). Qui il pesce non si vede, ma sotto sotto palpita e trattiene.

Come funziona la faccenda ce lo spiega magistralmente Giorgio Agamben, rievocando una storia tratta dalla tradizione mistica ebraica: «Quando il Baal Schem, il fondatore dello chassidismo, doveva assolvere un compito difficile, andava in un certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le preghiere e ciò che voleva si realizzava. Quando, una generazione dopo, il Maggid di Meseritsch si trovò di fronte allo stesso problema, si recò in quel posto del bosco nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” – e tutto avvenne secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Moshe Leib di Sassov si trovò nella stessa situazione, andò nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non sappiamo più dire le preghiere, ma conosciamo il posto del bosco, e questo deve bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione trascorse e Rabbi Israel di Rischin in dovette anch’egli misurarsi con la stessa difficoltà, restò nel suo castello, si mise a sedere sulla sua sedia dorata e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo nemmeno il posto del bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E ancora una volta, questo bastò». Insomma: noi conosciamo la parola, e questo per fortuna ci basta. Di generazione in generazione, l’umanità si allontana dalle «sorgenti del mistero e smarrisce a poco a poco il ricordo di quel che la tradizione le aveva insegnato sul fuoco, sul luogo e la formula – ma di tutto ciò gli uomini possono ancora raccontarsi la storia. […] Ogni racconto – tutta la letteratura – è, in questo senso, memoria della perdita del fuoco». (Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, 7-9).

Insomma, un tempo avevamo il rito e il mistero, oggi per fortuna abbiamo la magia della parola, capace di ri-evocare il mistero. Senza racconti e storie non potremmo avere nostalgia di quel motivo originario, e le nostre preghiere resterebbero inattese, i nostri desideri inappagati. In una parola, muti come un pesce.


Se avete ancora voglia di parole belle, vi propongo scolta e arruffio in un colpo solo (e in poche righe…)

1 Commento

  • Lidia Posted 30 Aprile 2021 21:32

    E io che pensavo che remora derivasse da remo…. Comunque dai almeno le navi c’entrano…..

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