Citazione

Paul Klee, Zaubergarten (Giardino magico), 1926, Guggenheim, Venezia.

Trascegliere parole altrui per suffragare le proprie, o per ornarle, o dare mostra di dottrina: è vezzo antico e cosmetico. Certuni se ne appassionano a oltranza: non muovono lingua se gli manca il parergo della frase lapidaria. Purtroppo, un intero asserto o una sentenza sono già ingombranti; non solo è difficile usarli col debito rispetto dopo averli davvero capiti, ma la loro stessa importanza offusca e rivela miserrime le parole nuove che li circondano – e che invece si volevano abbellire a loro spese. Ne deriva un effetto malconcio, come quelle murature sbilenche dove si vedono frammenti di iscrizioni, modanature e capitelli saccheggiati da edifici precedenti e di gran pregio. In queste trascrizioni, bisogna avere mano leggera, altrimenti il risultato è sbagliato. Perciò mi contento che i miei maggiori diano la loro risonanza in singoli termini, un aggettivo, un sostantivo soltanto: che non occorra, dunque, porre le virgolette richiamando le fonti e nominandole in esplicito. Se, per esempio, mi capita di sostare sulla parola essenza, è per un omaggio di contrasto a Platone e a Spinoza. Se dico prova, penso ad Anselmo, ma già gli allego Kant, che la smentisce. Col verbo internare son sedulo di Dante. Imponendo il silenzio, ecco emergere il maestro tedesco, Eckhart, insieme al laconico Wittgenstein. Per armonia risento di Eraclito; per possibilità e per goccia mi sovviene di Leibniz. Nel volere, Schopenhauer e Nietzsche: i gemelli inversi. Per gli animali son debitore di Kafka, e dell’antico Fisiologo. Se scrivo lotta, vedo l’ombra di Hobbes sotto forma di homini lupus, e accanto a lui: Marx, il combattente istorico. Con metamorfosi vado da Ovidio, con il fato mi apparento a Marco Aurelio. Per la fuga sfilo in contrappunto a Bach; per vacuità resto a mezzo tra Qohélet e Lao-tzu; nella terra mi accoglie Mahler. E quando, per dare fine agli esempi, mi trovo a impiegare la parola citazione, mi diventa indispensabile la salute di Montaigne – o il lutto estremo per Walter Benjamin.


Un racconto di Marco V. Burder: L’invisibile.

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