Jammucenne

Calitri, volti su una saracinesca.

[31] Ai tempi mica me n’ero accorto. E invece nel mio viaggio recente ho notato che in questa zona d’Irpinia ogni paese ha il suo drappello di cani randagi, o se preferite zingari e felici. All’inizio pensavo avessero un padrone lì nei pressi, qualcuno che li segue a raccattar le deiezioni. E invece no, o perlomeno io non me ne sono accorto. Magari i cani – persino quelli che vedi trottare tra un paese e l’altro – sono adottati dalla comunità intera, oltre il facile rito del possesso. A Caposele, per dire, una cagnetta smilza si sdraiava dovunque, anche in mezzo alla strada, con le auto a chiedere permesso. Aveva un certo qual fare regale, forse proprio perché non aveva un padrone, ma tanti sudditi pronti ad allungarle bocconi e moine. Le rovine, invece, luoghi abbandonati e sghembi, sono il regno dei gatti, che talvolta vedi appisolati su qualche muro, oppure scivolare tra quelle viuzze silenziose e meste. A quanto pare gli animali domestici per eccellenza si sono spartiti il campo: i cani son di conforto agli umani, i gatti custodiscono macerie e sacelli. Dopo la scossa, in effetti, ho visto più volte cani tra le rovine, in cerca dei padroni, ma anche di cibo, e su di loro talvolta si sfogava la rabbia impotente dei vivi. Nella canzone che Paolo Pietrangeli ha dedicato al terremoto forse non a caso si parla di loro.

Vengono presi i cani a fucilate
“Scappate, scappate!”
la notte copre sagome impazzite
“Fuggite, fuggite!”.

Un brano dei Molotov, band irpina doc, prende invece spunto dal famoso titolo del “Mattino”:

Fate presto, fate presto,
è un minuto di terrore,
fate presto, fate presto,
è la mia Irpinia colpita al cuore.

Ha il passo dell’elegia la canzone, dedicata a Teora, di un volontario di allora: nei suoi versi, Angelo Ciavarella immagina una simbolica piazza Sibilia.

Corpi impietriti da un attimo atroce
distesi per terra in piazza Sibilia;
nemmeno due legni che accolgan quei resti:
soltanto una chiesa li copre dal vento.

Pure Fausto Cigliano canta le voci dei morti e dei vivi, ma lo fa in dialetto per dare forza al suo grido.

E siente ‘sti voce che veneno ‘a Puciuriale!
So’ ‘e muorte che chiammano ‘e vive:
Tanino, Aitano, Cuncetta, Maria,
nuje stammo cu vuje.

Altri brani narrano il dopo terremoto. La canzone che forse più di altre prende per la collottola il senso di impotenza e di abbandono di quei giorni e mesi è opera di un gruppo a suo modo unico, gli Squallor. Fior di musicisti, al di là della facile etichetta demenziale, che sanno tradurre in versi e note la follia del presente e l’impossibilità del cambiamento.

Jammuce’, jammucenne
Jammucenne ca stu’ munno sta tremmann’
Ma che vita fetente
Guarda o’ surdo, comme ride e nun ce sente.

Già, meglio andarsene alla svelta da quella vita fetente e da una città che trema sott’ a uallera ‘e papà. A uallera, ovverosia lo scroto. Sì, meglio emigrare piuttosto che star lì ad ascoltare il «valzer delle betoniere» (Franco Arminio, Terracarne, Mondadori 2011). Per tutti il 1980 è un anno che nun se po’ scurdà, avuote ‘e gira è sempe sera, come canta Pino Daniele. Nella sua brevissima e straziante melodia il cantautore confessa che dopo il terremoto Nun’garro cchiù a sunà, non riesco più a suonare. Eppure lo canta, eppure lo dice.


Stabili rovine, la trentaduesima puntata. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.

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