E se Manzoni…

E se Manzoni, e sottolineo se, figlio di Giulia Beccaria e Alessandro Verri, non fosse stato riconosciuto dall’omonimo conte, avremmo comunque l’autore celebrato, i poemi, il romanzo eccelso, quella lingua finalmente nuova; oppure un oscuro signor nessuno, un venturino qualunque che non lascia traccia di sé nel mondo? Il quesito Alessandro Zaccuri se l’è portato dietro per anni, per poi svolgere l’assunto in Poco a me stesso, Marsilio 2022, romanzo ricco di intelligenza e humour, che tratteggia la vita laterale e sghemba di tal Evaristo Tirinnanzi, «un trovatello, un orfano abbandonato, un figlio di nessuno. Cresciuto dalla pubblica carità dei milanesi, era andato incontro a un destino assai più felice di quello riservato altrove ai derelitti della sua specie. […] In Milano i fanciulli senza famiglia non erano esclusi dai vantaggi dell’istruzione, specie quando davano prova di un’intelligenza mobile e pronta, quale si era rivelata, fin dall’età più tenera, quella dell’Evaristo». Grazie agli studi era divenuto contabile, certo di poca apparenza e ancor meno sostanza, balbuziente, percorso da «certe minime ubbie», impegolato nel gioco d’azzardo: tutti aspetti propri del nobile scrittore, ma che in Tirinnanzi prendono una piega inedita e vivace: il romanzo, si sa, è regno di sorprese e mirabilie.

A viso aperto
Nell’inventare quest’altro e possibilissimo Manzoni, Zaccuri ragiona e civetta su quale lingua usare, e par di udir l’augusto collega mentre sciacqua i panni in Arno: «Ciò sia detto per annunciare che da qui in poi i personaggi della nostra storia parleranno grosso modo un’unica lingua, che ci sforzeremo di adeguare a un uso mediano, ma si confida non mediocre, dell’italiano del tempo. È una finzione, la cui onestà risiede nel fatto di essere dichiarata a viso aperto e non introdotta con obliqua destrezza. Soccorre, nella presente decisione, la circostanza per cui la gran parte degli attori del dramma che si va a inscenare condividessero una non malvagia condizione di censo e di educazione». Per via della sua stessa finzione, Zaccuri sceglie una lingua che ovviamente ignora la straordinaria rivoluzione manzoniana. Il suo stile evoca la cadenza di fine Settecento-inizio Ottocento, a rimarcare che dell’illustre poeta non v’è traccia, e del romanzo storico nemmeno. E, al pari del sodale rinomato, abbonda di litoti, profonde ironia da tutti i pori, inanella felici digressioni, dà fiato alla sua voce d’autore per segnalare i limiti del detto, le possibili derive, i ragionevoli sospetti, le malizie e suggestioni. Il richiamo ai Promessi sposi non potrebbe esser più felice, come quando si chiede complicità al lettore, ovvero lo si blandisce con diletto: «Nell’attesa di metterci anche noi in ascolto», «Avrà forse notato il lettore…», «A qualcuno dei nostri lettori risulterà forse strano…». Va a finire che, in questo romanzo, di Manzoni ne abbiamo perlomeno tre: il possibile orfanello, il mirabile scrittore e il ventriloquo Zaccuri, che guarda caso di nome fa Alessandro, e si rivolge al lettore con rispettosa e arguta confidenza.

Personaggi e intrighi
Popolano il racconto un barone sedicente, tal Cerclefleury, che si vanta di possedere l’arte di Mesmer, ovvero il segreto dell’eterna giovinezza, o più modestamente certe virtù magnetiche in grado, a suo dire, di risvegliare una qual energia sopita, soprattutto nei sospirosi petti delle dame della Milano che conta; il cattivo della trama, il Faggini, scimmiesco e grassatore; su tutti Giulia Beccaria, in gioventù spregiudicata e ribelle, ormai anziana e malata, ma pur sempre svelta a cogliere il nuovo che la Francia sapeva ancora regalare; e poi il gesuita astuto, la servetta sveglia e assai piacente, il medico mignatta, il vecchio nobile spiantato… Senza contar Milano, che meriterebbe un capitolo tutto suo, richiamata e svolta con le carte antiche sotto il naso, a pedinar i personaggi a zonzo tra le vie nobili e i quartieri degradati. L’alto e il basso si mischiano, augusti lignaggi e perfide canaglie, illustre nobiltà e miseria del raggiro. «Ah, Milano! Ahi, perduto splendore delle straducole che svoltano dispettose a tracciare un labirinto di slarghi e strettoie! Dove sono i ponti, dove le sponde lungo le quali placido scorreva il Naviglio? Dov’è, adesso, la gran fossa di San Marco? Fortore come di selvaggina, afrore di fiume costretto a scorrere tra cortili e palazzi. Ah, Milano, dov’è oggi la quieta gloria delle tue bellezze? Anche il barone, benché preso dall’inseguimento di quella preda ignara, non era insensibile al maestoso decoro della città, la quale, fino a quel momento, non aveva intravvista che di scorcio». L’elenco di protagonisti e figuranti ci fa capire che in questo racconto siamo in territorio franco, dove il verosimile per buona sorte si rilassa, e l’invenzione prende campo e scena. Se uno vuole, può andare in traccia degli innumerevoli richiami manzoniani; oppure lasciarsi andare alla finzione, che tanto ci si diverte uguale.

Il doppio
Evaristo Tirinnanzi non è copia sbiadita dell’illustre poeta, semmai specchio anamorfico che amplifica e distorce quel che magari sarebbe opportuno tenere in minor conto. E se è vero che l’orfano, ormai adulto, avverte la voce di colui che avrebbe potuto essere – il poeta celebrato, il romanziere eccelso; facile che lo scrittore fosse a sua volta percorso e dilaniato dall’accento dell’orfano, tenero e spaurito. Forse anche per questo Manzoni di sé scriveva, preveggente:

Poco noto ad altrui, poco a me stesso:
Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

Il tema del doppio percorre così il romanzo, una certa voce sinsiga il contabile e lo inquieta. Il Tirinnanzi «si disponeva ripetere o controllare un conteggio, e invece dalla sua mano, senza che se ne accorgesse, uscivano le parole di quell’altro: “e allor che dalle tenebre”, “giace in sua lenta mole”, “si che tu sei terribile”. Al copista restava appena il tempo per impedire che simile assurdità irrompesse fra le ordinate colonne del libro mastro, e allora la penna si spostava rapida in direzione di fogli e foglietti sempre pronti alla bisogna, e su quelli il Tirinnanzi scriveva, furiosamente scriveva le parole di cui non intendeva il significato e che, questa volta, neppure avevano la necessità di formarsi nella sua mente, tanto era rapido il loro rivelarsi sulla pagina. Il fulmine, il baleno». Sta’ a vedere che Zaccuri – mi son detto – ha selezionato con certosina cura, o ritenuto a mente, passi e passi dell’amato Manzoni, per poi divertirsi a seminare nel racconto frammenti di poema, non poche notiziole assai fondate, certi luoghi, i nomi. Si affaccia prepotente a paragone un libro di Mari, che considero tra i suoi migliori, Io venia pien d’angoscia a rimirarti: qui il protagonista era Leopardi, imitato in ogni suo gesto e voce, sia pur affetto da una lunare forma di licantropia; Zaccuri invece si piglia Manzoni, ovvero il suo gemello, e nel narrare l’orfano virtuosisticamente celebra il maggiore.

La forma romanzo
Una settimana fa – eravamo alla libreria Muratori di Capriolo – Zaccuri è stato sollecitato dal padrone di casa, Alan Poloni, a ragionare sul genere romanzo. Italo Calvino è per un prodotto compatto e levigato, senza sbavature o difetti di fusione; altri preferisce qualcosa di più mosso e variegato, si pensi al Primo Levi de La chiave a stella. Ecco, a me pare che Alessandro Manzoni si consumi nel dilemma: il romanzo deve a tutti i costi rispettare il vero, ma proprio per questo in alcune sue sezioni – i dialoghi, in particolare – per risultar credibile va “sporcato” ad arte con anacoluti, solecismi e altre imperfezioni; senza contare che, laddove la documentazione proprio non è data, lì il narratore qualcosa deve pur inventarsi, altrimenti la storia non procede, anzi arranca e frena. Da un lato abbiamo il vero storico e le sue leggi perentorie; dall’altro il favoloso mondo d’invenzione, che chiosa il reale, lo illumina e seduce. Esattezza del narrato o meraviglia del racconto, questo è il problema. Stretto in mezzo, Manzoni fa la fine di Antigone, e moltiplica le ubbie. Io me la cavo con la pallavolo, così mi chiamo fuori: chiarito che in prima battuta (appunto) tutto dipende dalla ricezione, la parola preziosa alza la palla, mentre quella dialettale, o comunque quotidiana, va a segno oltre la selva delle braccia e delle mani.

Francesco Hayez,
Ritratto di Alessandro Manzoni (1841)

A onor del vero
Zaccuri è per la via dell’invenzione, e la finzione scorre felice tra le sue pagine. Ma il quesito di cui sopra se lo pone, eccome. Poco a me stesso racchiude infatti una preziosa indagine sul genere romanzo, come si avverte in questo dialogo tra il barone e il balbuziente: «”Dite, amico mio, siete voi lettore di romanzi?”. “Di ro-manzi? Ma quelle sono scioc-chezze di don-nicciuole. E poi la più parte sono scritti in fran-cese o in altra lin-gua forestiera” rispose il Tirinnanzi, più che mai smarrito. “Io temo che vi inganniate” lo rimproverò bonario il Cerclefleury, “essendo mia convinzione il fatto che i romanzi svolgano oggidì un compito ragguardevole assai.”». Quale sia questo compito è proprio un bel quesito. Zaccuri ci soccorre nella conclusiva Giustificazione e congedo, là dove afferma che «la modernità di Manzoni sta nella chiarezza con la quale nelle sue opere sono individuate le due principali questioni che un narratore dovrebbe affrontare: la pertinenza della lingua sul piano tecnico e la legittimità del racconto sul piano etico». La letteratura è per Manzoni una forma di conoscenza, tanto da sperimentare ogni genere, fino «ad approdare a quell’inimitabile esperimento di narrative nonfiction che è la Storia della colonna infame». Già, Manzoni le ha provate tutte per risolvere il busillo. Mi chiedo che avrebbe pensato ascoltando una delle Lezioni di Nabokov: «La letteratura è invenzione. La finzione è finzione. Definire una storia una storia vera è un insulto all’arte e alla verità. Ogni grande scrittore è un grande imbroglione». Parole che Silvano Petrosino commenta: «Non “nonostante”, ma proprio “grazie” alla finzione la vera letteratura tenta di rendere testimonianza alla verità […] La letteratura non dice che essa sa qualcosa, ma che sa di qualcosa; o meglio: che ne sa qualcosa – che la sa lunga sugli uomini». (Il magnifico segno). Chi lo sa, magari per buona creanza Manzoni avrebbe annuito. Me lo vedo: schiusa la fida tabacchiera, la mano infila una presa su per la frogia; un sonoro starnuto asperge in confuso gli accolti in piedi al commendevole d’intorno. Un sorriso ironico scioglie la voce, timida e mordace: «Sa-lute!».


A proposito di lingua, dialetto e scrittura: Luigi Meneghello.

2 Commenti

  • Gioacchino Leva Posted 13 Aprile 2022 22:03

    Credo che Zaccuri sia uno degli scrittori più interessanti e versatili del panorama italiano, lo seguo da tempo anche come critico, raramente mi sono trovato in disaccordo con quello che scrive. E nei romanzi mostra sempre una padronanza della lingua e una misura che lo distinguono sin dalla prima pagina. Certamente leggerò anche questo suo nuovo romanzo, grazie per la bella recensione.

  • Miriam Nava Posted 13 Aprile 2022 22:00

    Vien proprio voglia di leggerlo questo libro, son curiosa. Non amo particolarmente i romanzi storici, preferisco storie legate all’oggi, ma questa volta voglio proprio fare un’eccezione

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