Roberto Calasso, Bobi e Memè

Due libri che escono il giorno della scomparsa dell’Autore: molti hanno evidenziato la coincidenza, io ci vedo il compimento. Questi libri di Roberto Calasso, Bobi e Memè Scianca, mi ricordano il padre di tutti gli dei: Giano bifronte, il dio a due teste, una vòlta al passato e l’altra al futuro. Giano, da cui deriva ianua, ovvero porta, soglia. La soglia da cui Calasso ha dettato il suo discorso ultimo con due libri gemelli, termine che in greco suona per l’appunto Adelphi. Prima ancora che uscissero, al primo annuncio, sapevo che avrei dovuto leggere prima Bobi, che pure per vicende narrate viene dopo Memè. Il fatto è che Calasso è diventato quel che è stato soltanto dopo l’incontro con Roberto Bazlen; e da qui ha potuto riguardare il suo passato, e comprendere la sua stessa vocazione. Noi siamo quel che siamo stati alla luce di quel che siamo diventati, e di chi ci ha indicato la direzione.

Ecco i volumi, finalmente: noto che Bobi reca il numero 767, Memè Scianca il 768. Sì, anche per Calasso Bobi doveva uscire prima. E non solo: nell’elenco delle opere di Calasso citate all’interno dei volumi, per via della forzatura alfabetica Bobi risale la corrente e si posiziona dopo Allucinazioni americane. Perfetto: l’immaginazione cinematografica e la magnifica ossessione bazleniana prendono per mano la memoria e la scrittura dell’Autore. Per via della medesima forzatura, Memè Scianca figura ultimo nell’elenco delle opere cosiddette minori dello scrittore-editore. Perfetto anche qui: dopo aver ricordato un primo libro di memorie iniziato da bambino, e subito interrotto, in Memè Calasso infatti ricorda che «l’idea di scrivere di me stesso si è dileguata fino a oggi, dopo quasi settant’anni. Scrivere si sarebbe collegato sempre all’esplorazione di qualcosa di lontano, anche come lingua, che presentivo essere più urgente di qualsiasi altra cosa intorno a me, incluso me stesso. Il solo italiano su cui ho scritto un libro è apparso tardi ed era un pittore, Tiepolo, non un maestro della lingua italiana. Ciò che ci è più vicino ha bisogno di una via tortuosa per arrivare a mostrarsi» (14).

In entrambi i testi, la narrazione non è consecutiva, ma rapsodica, per singoli episodi. Così è la vita, così, soprattutto, la memoria. «La memoria è fatta in prevalenza di buchi, come un territorio crivellato di crateri vulcanici ormai inattivi. Qualsiasi tentativo di ristabilire un itinerario simile al tracciato di una strada su una mappa è vano e tende a sfigurare gli elementi che via via incorpora» (Memè Scianca, 15). Una vita, propria come di altri, è intessuta di una collezione di istanti trattenuti dalla memoria di chi scrive. Spesso non si registrano i fatti decisivi o maggiori, ma dettagli, minuzie, scarti. Questo non significa resa, semmai rispetto. Sta al lettore unire i punti e guadagnare quel che più rassomiglia all’intero.

In Bobi troviamo una collezione di istanti a ritrarre il genio di Bazlen, in Memè una collezione di prime volte legate all’infanzia dello scrittore, nel segno della “primavoltità”, «una parola che Bazlen aveva inventato e usava. Significava il legame fra qualcosa che era successo e che gli dava un nome. Se questo avveniva subito, il suo carattere abrupto e irripetibile gli conferiva una qualità ulteriore, una forza d’urto che poi si sarebbe dissipata. Tutto il primo Novecento era stato un seguito di primavoltità» (Bobi, 78). Prosegue Calasso: «Tutto quello che Bobi diceva sui libri era ciò che più mi attirava, mi colpiva e poi rimuginavo, provando a collegare i punti, talvolta lontanissimi. Ma c’era qualcosa di precedente, e forse più importante, che sosteneva le sue parole. Con lui, per la prima volta, avevo un’impressione di qualcuno che fosse riuscito a sbarazzarsi di tutte le idee correnti (ed erano tante, allora – e pesanti, difficili da smuovere). E questo dopo averle attraversate, ma in un tempo remoto, come malattie infantili. C’era un altro modo di respirare, evidentemente – e con lui si sentiva, senza che mai ne parlasse. E una strana irragionevole euforia che stingeva su tutto» (Bobi, 18).

Bazlen era «una sorta di uragano silenzioso» (Bobi, 78), «uno sciamano travestito in abiti borghesi» (88), «la persona più veloce nel vedere il “dettaglio luminoso” (Pound)» (89), «un potente contravveleno» (94) alla modernità, persino quella postuma, quella che affligge i nostri giorni. Bobi fu per Calasso l’essenziale che mancava ai tanti scrittori e talenti conosciuti nel periodo giovanile. E l’essenziale, per Bazlen, non era scrivere, ma collegare tra loro libri unici, farli risuonare l’uno accanto all’altro. Bobi «preferiva parlare di ciò che si riconosce già dal suono. Era quello il punto decisivo. Bazlen diceva spesso: non suona bene – e si capiva che non c’era appello» (77). Non a caso «L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi. Definibile con una frase che mi disse il giorno in cui me ne parlò – e Adelphi non aveva ancora il suo nome: “Faremo solo i libri che ci piacciono molto”» (66). Ovvero libri unici, nati «da un’esperienza diretta dell’autore, vissuta e trasformata in qualcosa che spiccasse, solitario e autosufficiente» (67).

Il primo libro, il suono dei nomi, i primi ricordi, il primo viaggio, il gatto nero di pezza, i primi alberi, la prima parola, Bilibà…: Memè Scianca è una collezione di prime volte, un esercizio della memoria reso possibile solo dall’incontro con Bazlen. Senza Bobi, la memoria di Calasso non avrebbe ricevuto la necessaria impronta, la giusta direzione; senza Bobi, mai Calasso sarebbe andato in cerca delle sue prime volte, e nemmeno avrebbe fissato – in senso chimico, fotografico – il suo precocissimo gusto per i libri: «anche quando non sapevo ancora leggere, amavo andare con grossi volumi sotto il braccio, su cui disegnavo strane e primordiali figure» (Memè Scianca, 69). E ancora: «Leggere fu ciò che insensibilmente prese il posto dei giochi che facevo da solo. […] Il gioco – qualsiasi gioco – induce a una concentrazione estrema, ad annullare tutto ciò che non ne è parte. È una forte droga autoprodotta, la prima fra tante. Ed è ovvio, per qualsiasi bambino, che sia preferibile a tutto il resto. Ma, a poco a poco, qualcos’altro vi fa breccia. Per me furono i libri, che mi attiravano da sempre, per sprazzi intermittenti. È una conquista graduale la possibilità di immergersi in un libro con la stessa intensità che si sperimenta nel gioco» (Memè Scianca, 49-51). Una vocazione, quella di Calasso, ma una vocazione a rischio dissonanza se non fosse stata diretta, in chiave musicale, da Bazlen.

Da ragazzo, l’Autore scelse per sé un nome curioso, Memè Scianca: Memè a richiamare il soprannome del barone di Charlus, ma Scianca? «Non mi era chiaro da dove venisse, finché una voce femminile mi disse che lo aveva inteso dall’inizio come un nome indiano: in sanscrito, shankha significa conchiglia, usata per libagioni d’acqua. Se perforata, veniva usata in battaglia per il suono che emetteva come corno o una tromba» (Memè Scianca, 46). Ancora una volta, passato e futuro si danno la mano: le primissime letture si collegano naturaliter alla successiva passione di Calasso per la cultura orientale. Ancora e di nuovo Giano bifronte è il nume che ci aiuta a comprendere questi volumi. «Quel glicine fiorito fu il primo colore che contemplai. Lo guardavo soltanto. E l’immagine si è fissata. È ancora nitida» (Memè Scianca, 21). Fateci caso: a confermare che tutto è compiuto, il colore della copertina di Bobi è proprio quello del primo glicine fiorentino.

Bobi presenta una pagina in più rispetto a Memè Scianca, 97 a 96. Va letto prima dell’altro, certo, ma al contempo è ulteriore rispetto al gemello: la pagina che eccede e sborda ci ricorda infatti che Bazlen aveva fondato la sua vita «su un irrimediabile non sapere esposto alle onde in ogni direzione. Era stato il suo modo di diventare vivo» (Bobi, 97). Qui Calasso richiama un famoso aforisma di Bazlen: «Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi». Sovviene un auspicio del poliedrico e imprendibile triestino: «Morire appagato e curioso» (Note senza testo, 33). Auspicio che, ne sono certo, Calasso ha fatto suo con gioia, e volentieri.


Come ordinare una biblioteca secondo Roberto Calasso.

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