Del maestro Francesco Fratus sappiamo poco. Compagno di Luigi Pelandi alle Scuole Normali di Treviglio, era nato intorno al 1877, magari dalle parti di Fara Gera D’Adda, dove il cognome è piuttosto diffuso. Sposò una collega, fu collaboratore dell’Eco, a quanto pare venne nominato Cavaliere, anche se ho trovato solo un minimo riscontro in proposito. Era un omone alto, generoso e buono. Un entusiasta, secondo chi lo conosceva bene. Di certo non era un maestro come tutti gli altri. Anzi.
Un maestro come pochi
Nel 1904 Fratus viene assunto dal Comune di Bergamo, assegnato alla terza classe della scuola elementare in Contrada Tre Passi, l’attuale via Torquato Tasso. A partire dal 1911 conduce i propri alunni a far scuola sulle Mura; visti i lusinghieri risultati, già l’anno dopo l’amministrazione comunale approva ufficialmente l’iniziativa della scuola all’aperto, con il pieno sostegno di alcuni medici e pediatri che si occupano di selezionare i bambini più bisognosi di attenzione. Al tempo, infatti, abbondavano fanciulli predisposti alla tubercolosi, i rachitici, i cosiddetti tardivi, i pigri, gli indisciplinati e gli instabili, per non parlar dei ripetenti. Fratus decide di dedicare il proprio impegno proprio ai ragazzi che la scuola generalmente emarginava, dando vita un progetto didattico che aveva potuto sperimentare anni addietro in quel di Padova – prima realtà del genere in Italia – e affinare sul piano teorico all’università di Pavia, sotto la guida del professor Saverio De Dominicis. Fratus si era convinto che la scuola più adatta per questi ragazzi difficili – ma alla fin fine per tutti i giovani – fosse proprio quella all’aperto, caratterizzata dal vivo confronto e conforto con la natura, a diretto contatto con le cose vive. Basta aule strette e buie, mettiamo fine al martirio didattico condito da pessime posture, non limitiamoci a una cultura sterile e libresca, al bando la ferrea disciplina che, come una camicia di forza, imprigiona le naturali doti del fanciullo. Il maestro bergamasco è tranchant: la vecchia scuola non è affatto attraente e fa passar la voglia d’imparare. Malattie e pigrizia degli alunni, sostiene, non sono solo esito di condizioni sociali svantaggiate, ma anche di una scuola arida e antiquata, che ha quale unico obiettivo la disciplina dello scolaro, costretto a star immobile dietro un banco fino allo sfinimento, a obbedire senza fiatare, limitandosi a ripetere quel che il maestro spiega senza metterci del suo, e sempre al chiuso, manco fosse in guardina. Insomma, scrive Fratus con accenti rivoluzionari, una scuola di tal fatta confeziona un adulto inquadrato e pronto all’obbedienza. «E se un giorno potrà entrare nella vita, in quella vita che egli non ha mai potuto conoscere né amare, diventerà il burocratico perfetto, l’impiegato misantropo, l’operaio contento, il padre di famiglia rigido, inflessibile; l’uomo tutto d’un pezzo senza sorrisi, senza debolezze, e qualche volta senza cuore» (Francesco Fratus, La scuola all’aperto, Bemporad 1914, pag. 22).
Aria nuova
L’alternativa è una scuola dove letteralmente si respira un’aria nuova, fatta di movimento e libertà. Una scuola dove i sensi sono il canale principale per apprendere, le nozioni non vengono imposte dal maestro onnisciente, ma risultano il punto d’arrivo di una visione diretta del mondo, al bisogno mediata dal docente. Ed ecco allora che, di buon mattino, una quarantina di ragazzi scortati dal Fratus partono da scuola muniti di quaderno e penna, più avanti di una sediolina pieghevole, infine anche di un banco-zaino leggero, appositamente realizzato per l’occasione; tutti insieme se vanno su per le Mura in cerca di un posto adatto per apprendere dalla viva voce della Natura: gli spalti di San Giovanni, piuttosto che dalle parti di Porta San Giacomo o nell’ampio spiazzo di fronte all’attuale Seminario, a due passi da Colle Aperto. La passeggiata è salutare, invita i ragazzi all’allegria, i corpi si distendono, i polmoni respirano come si deve, la fatica allerta i muscoli e predispone le menti. A riprova, sentite un po’ che scriveva un villeggiante al quotidiano locale: «Questa mattina mentre girellavo come al solito, per respirare quest’aria balsamica, ho notato una cosa che mi ha impressionato assai ed ha valso ancora una volta a farmi stimare la simpatica città orobica. Una squadra di alunni delle scuole elementari si avanzava con passo marziale. Vestivano essi una divisa semplice (una maglia bianca con fascia berretto azzurri) e portavano sulle spalle a guisa di zaino un ordigno di legno che non potei subito comprendere cosa fosse. Che sarà? Diceva tra me. E senz’altro seguii la squadra gentile. Gli alunni guidati dal loro maestro si avanzarono al passo in ordine fino ad una piccola spianata. Al comando dell’insegnante, gli alunni levarono dalle spalle l’ordigno e in men di un minuto lo convertirono in una seggiolina assai comoda e in un piccolo tavolo di cui appoggiarono il piano sulle ginocchia. Il maestro ordinò il libro a una tal pagina e subito incominciò una lezione interessantissima intrecciata da domande e risposte sempre pronte e vivaci. Riposto il libro, il maestro fece prendere un quadernuccio incominciò a far esercizi di calcolo mentale. Anche qui notai una grande facilità di risposta da parte degli alunni e rimasi sorpreso come ragazzetti di quell’età potessero far calcoli che tante volte facevano pensare anche me, che per le esigenze della vita sono costretto a farne tutti i giorni. Finita la nuova lezione gli alunni ripresero il loro bravo zaino e sempre a passo cadenzato ritornarono per la strada donde erano venuti» (L’Eco di Bergamo, 28-29 giugno 1913).
I ragazzi impegnati a lezione con i loro banchi-zaino. L’imponente figura con tanto di magiostrina è ovviamente quella del maestro Fratus.
Anonimo, Bergamo. Scuola all’aperto, post 1913, ripr. del sec. XX , seconda metà, negativo gelatina al bromuro d’argento / pellicola. © Museo delle storie di Bergamo, Archivio fotografico Sestini, Raccolta Domenico Lucchetti, inv. n. ERV-7231.
Educazione naturale
Già, ma come si insegna all’aperto? La risposta di Fratus è disarmante: «È presto detto: conformando l’opera educativa a quella della natura» (La scuola all’aperto, 158). Il programma didattico non è predefinito e rigido, ma si modella sulla viva esperienza di ogni giorno, su quel che lo scolaro vede, sente, annusa, tocca, incontra. Un programma aperto e sorprendente, che asseconda le curiosità dei fanciulli, li sprona a domandare, a prender nota di quanto più li appassiona, anche a passar da un tema all’altro se per un qualche motivo se ne presenta l’occasione. «Un giorno mi trovavo sugli spaldi [sic] delle mura e facevo una lezione di geografia. Segnavo ai miei alunni il vasto orizzonte, le linee sinuose del Brembo e del Serio, mostravo le cime biancheggianti delle Alpi, indicavo lontano lontano gli Appennini che si confondevano con l’azzurro del cielo. I miei alunni si interessarono assai alla lezione e rimasero attentissimi per una buona mezz’ora. Finita la lezione ci voltammo verso il viale, e dietro di noi vedemmo molti soldati che ci guardavano ridendo e commentando a bassa voce. Essi si trovavano in un campo poco lontano con i loro esercizi, e nel momento del riposo erano venuti ad ascoltare la nostra lezione. E nessuno di noi si era accorto della loro presenza, o per meglio dire, nessuno di noi aveva mostrato di accorgersene. Lasciai liberi i miei alunni, ed essi divennero subito amici dei giovani soldati. Impararono così il nome di altri monti, di altri fiumi, di altri paesi che quei buoni giovani ricordavano volentieri…» (La scuola all’aperto, 162).
Gli scolari mettono a dimora piante ed essenze, il maestro vigila sul loro operato.
Anonimo, Bergamo. Scuola all’aperto, post 1913, ripr. del sec. XX, seconda metà, negativo gelatina al bromuro d’argento / pellicola. © Museo delle storie di Bergamo, Archivio fotografico Sestini, Raccolta Domenico Lucchetti, inv. n. ERV-7230.
La scuola è dappertutto
Per il maestro bergamasco, dunque, «la scuola è dappertutto: in un giardino, in un bosco, in un prato, sulle rive di un ruscello. In questo bel quadro mobile ed attraente anche il cervello si risveglia, non si affatica mai, giacché è sempre una festa ad ogni istante e ogni sforzo è un piacere» (La scuola all’aperto, 28). Come si vede, Fratus prende la vecchia didattica e la rivolta come un calzino: il chiuso diviene aperto, l’apprendimento mnemonico curiosità, il buio luce, la rigidità movimento, la noia gioia, l’imposizione libertà. Per questo «la scuola all’aperto deve incominciare dal primo anno di scuola e continuare per tutto il periodo dell’obbligo scolastico. E deve estendersi a tutti, anche ai fanciulli sani, perché tutti hanno bisogno di essere sottratti ad un ambiente che comprime le loro tendenze naturali e costituisce un pericolo permanente per la loro salute» (La scuola all’aperto, 108). In un contesto siffatto «l’educatore non ha bisogno di far lezioni pesanti, cattedratiche. La pedagogia addormentatrice e solenne davanti a uno spettacolo della natura, scompare del tutto» (142). E ciò vale anche per le materie all’apparenza più astratte e normative come l’aritmetica: «Tutto si prestava per il calcolo: un filare di alberi era un elemento più che sufficiente per fare esercizio sulle quattro operazioni, la strada mi dava occasione di fare esercizi sulle misure di lunghezza, un mucchio di fieno sulle misure di peso, un paio di buoi su quelle di valore, un prato sulla superficie, e così via» (203). Fratus è così creativo da confezionare un programma didattico completo, che prende spunto dalle varie stagioni dell’anno; e così modesto da confessare che su certi argomenti i suoi scolari ne sapevano più di lui: «Potei io pure sorprendere alcune conversazioni che mi interessavano e direi quasi, m’istruivano. Il figlio di un ortolano mi ha dato infatti nozioni di orticoltura che io non sapevo e che sui libri non avrei trovato!» (199).
Gli alunni, con cappello d’alpino, leggono nello spiazzo vicino a Colle Aperto, là dove verranno realizzati i Padiglioni fissi. Un alunno a quanto pare sta interrogando il maestro su un passaggio che non gli è del tutto chiaro.
Anonimo, Bergamo. Scuola all’aperto, post 1913, ripr. del sec. XX, seconda metà, negativo gelatina al bromuro d’argento / pellicola. © Museo delle storie di Bergamo, Archivio fotografico Sestini, Raccolta Domenico Lucchetti, inv. n. ERV-7227.
Promossi o bocciati?
Verso la fine dell’anno scolastico, Fratus prevede una fase di ripasso delle principali nozioni, ma ovviamente non al chiuso dell’aula, semmai all’ombra di qualche pianta ospitale. E lì fioccano le domande, con il maestro che saltabecca da questo a quel fanciullo per affrontare i quesiti. Già, ma come andò l’esame di quella quarantina di reprobi? Tra la sorpresa generale, vennero tutti promossi: i malati, gli ostinati, i ripetenti, gli agitati, i pigri e pure i tardivi. Quanto ai benefici fisici, il medico che sul quotidiano locale si firma d.f.m. va dritto al sodo: «Per non citare altri dati ricorderò che gli aumenti di peso ottenuti dai singoli alunni nel periodo maggio-luglio 1911 diedero medie di grammi 660 pei maschi, grammi 800 per le femmine della prima sezione, e di grammi 580 pei maschi, grammi 1058 per le femmine della seconda» (L’Eco di Bergamo, 17-18 maggio 1912). Insomma, un successo. Arrivarono così le prime tettoie provvisorie, installate per i giorni di pioggia, mentre l’idea di realizzare Padiglioni fissi venne vanificata dalla Grande Guerra. Poi fu la volta del fascismo, che a fiuto aveva in sospetto scuole siffatte. Il maestro Fratus continuava a insegnare, certo, ma il regime non gli risparmiava polemiche e intralci per via dei metodi tutt’altro che ortodossi. Nel 1932 vennero finalmente eretti i Padiglioni, qualche anno dopo sigillati con vetrate per le giornate meno clementi e completati da una piccola cucina. Oggi nel medesimo luogo una costruzione in muratura ospita una succursale della Scuola media Donadoni. Sull’alto muro di recinzione, sopra un’ampia nicchia posta tra le due rampe d’accesso, una targa coeva ricorda quegli anni.
Sul web ho trovato una rete nazionale di scuole all’aperto, con il motto “Anche fuori si impara”. Chissà se questi ragazzi passano la gran parte del tempo all’aperto. Non so, mi sa che l’aula prevale. Due sono gli Istituti Comprensivi bergamaschi affiliati al progetto, Camozzi e Zanica. Sarei curioso di sapere se i professori conoscono il lavoro pionieristico del maestro bergamasco.
Il Padiglione costruito nel 1932 e inaugurato ufficialmente nel giugno 1933. Il maestro alla lavagna potrebbe essere Fratus, che morirà di lì a poco. Il suo posto verrà preso da tre maestre. Sulla destra, una bimba con il grembiule chiaro legge per conto suo.
(Immagine tratta da Storylab)
Nemmeno una via
Fratus morì ai primi di dicembre del 1933. Il giorno del suo funerale, il quotidiano locale ricordava come «l’attività del Fratus ed i suoi entusiasmi a questa sua fede nelle funzioni della scuola, non mancarono di contrasti. Anche questa volta le mediocrità inerti si scagliarono su questo uomo, ed in parte riuscirono anche a paralizzarne l’energia». Soprattutto negli ultimi anni, come accennavo poc’anzi, molti in città avevano osteggiato un maestro così intraprendente e visionario. Non è forse un caso se, nel maggio 1942, la scuola all’aperto viene intitolata alla Medaglia d’Oro Gioachino Zanchi, con tripudio di labari e di fanfare. Al maestro Fratus nemmeno un grazie, quella volta. E ancor oggi in città nemmeno una via ricorda Francesco Fratus: un maestro così in anticipo sul proprio tempo da venir troppo presto dimenticato.
Fonti e ringraziamenti
Archivio de L’Eco di Bergamo.
Mirella D’Ascenzo, Per una storia delle scuole all’aperto in Italia, ETS, Pisa 2018, pp. 99-105.
Francesco Fratus, La scuola all’aperto, Prefazione di Saverio De Dominicis, Bemporad, Firenze 1914.
Museo delle storie di Bergamo, Archivio fotografico Sestini, Raccolta Domenico Lucchetti.
Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa, volume VI, Il Borgo Canale, pp. 198-201 (da questo volume è tratta l’immagine del maestro Fratus che compare all’inizio del presente articolo).
Ringrazio per la preziosa collaborazione le dottoresse Jennifer Coffani e Daniela Pacchiana, Responsabili dell’archivio fotografico del Museo delle Storie di Bergamo; e la dottoressa Roberta Frigeni, direttrice del Museo stesso. Alfredo Panzeri, dell’Archivio de L’Eco di Bergamo. Il personale della Biblioteca Tiraboschi; la dottoressa Sonia Claris, dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “Eugenio Donadoni” di Bergamo; e Robi Amaddeo per quanto mi ha saputo raccontare, lui che dal 1971 al 1976 ha frequentato i Padiglioni, a quel tempo completi di vetrate e di palestra.
Dedico questo articolo al mio maestro delle elementari, Giacomo Panseri, che ricordo con grande affetto e viva gratitudine. Qui rievoco una sua invenzione didattica.
4 Commenti
Dal passato vengono ammonimenti seri, altro che nostalgia. Abbiamo tutto da imparare, e invece ce ne guardiamo bene. O tempora, o mores.
Quando si dice “una bella coincidenza”… Finito di leggere il Suo intrigante articolo sul maestro Fratus (con l’immaginabile, esaltante piacere della scoperta), mi accingo a stendere un mio entusiasta commento. Così apro un candido foglio e predispongo di salvarlo nella cartella “Calzana”. Ma guarda che cosa succede: mi si sventaglia davanti il lungo elenco dei Suoi scritti e per coincidenza – davvero non so trovare una ragione – gli occhi si bloccano su “La scuola narrata”. Naturalmente apro e rileggo, di nuovo affascinata, e altrettanto gioiosamente approfondisco con “Il mio primo giorno d’insegnante” e “La conquista della Quinta C” di Giovanni Mosca. Una catena stupenda da cui non riesco a distogliermi, uno sfolgorante caleidoscopio di figure di docenti. Conclusione? Condivido tranquillamente la convinzione di Eraldo Affinati: Il maestro deve mettersi in gioco in prima persona. Penso veramente che non ci sia altra strada per raggiungere un autentico traguardo educativo. E che uno dei “grandi” sia bergamasco, riempie il cuore d’orgoglio. Grazie per avermelo fatto conoscere con la consueta bravura…
Che bell’articolo! Mi chiedo: persone dello stampo del maestro Fratus ci sono ancora? La scuola oggi ha in cuor suo una qualche traccia di novità o è solo burocrazia e rispetto delle regole? Certo, dipende anche dagli alunni e dal contesto ma la scuola, sembra sempre identica a se stessa, in verità non potrebbe esser più diversa. Un secolo fa era più innovativa, forse
Semplicemente grazie, professor Calzana, queste sue storie sono meravigliose e anche commoventi
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