Al Gambrinus

Ancora un breve tour nel retrobottega di uno scrittore. Un mese fa vi avevo indicato il capitolo che mi è costato di più nel redigere il mio romanzo d’esordio; oggi è la volta di Esperia, in particolare del capitolo 12 della prima sezione, che avrò riscritto non so più quante volte. Il motivo è semplice: tra i diversi generi, il comico è di gran lunga il più complicato. Perché la pagina funzioni, deve obbedire ad alcune regole ferree, che cito alla rinfusa: il doppio parodico (il gioco tra i protagonisti, oltre che tra protagonisti e contesto), il rimando tra attesa e sorpresa, l’equilibrio tra descrizioni e dialoghi, ovvero i tempi comici, da calibrare con attenzione, il finale imprevedibile e gustoso. In questo tipo di scrittura, basta allentare il ritmo e subito qualcosa suona storto. Quanto a preparazione, il comico è il genere più razionale che c’è, e consiste nella somma di tragedia più tempo.


Al Gambrinus

La sera successiva il Curnis diede appuntamento alla Ona niente meno che al “Gambrinus”, il miglior locale della città. Non stava più nella pelle, voleva confrontarsi con la sua bella, voleva capire se aveva fatto bene a tirar fuori quel “Sì, ma dopo?” davanti ai compari. Agli occhi della Elena farsi vedere al “Gambrinus” con il suo drudo significava uscire finalmente dalla clandestinità di un rapporto privo di momenti ufficiali, di quelli che prendi la futura per mano e la esibisci al mondo. Cosa mai successa prima, nonostante lusinghe e moine che il biciclista aveva sempre scantonato. D’altronde il Curnis c’era da capirlo: quella ragazza non corrispondeva proprio ai canoni dell’universo maschile, semmai li eccedeva.
Persino i genitori si erano rassegnati al fatto che la fanciulla a fascino stava proprio combinata male. Molto per tempo il padre, Celso Bonomelli Santus, titolare di un avviato negozio di ferramenta, uomo di rara concretezza, forse brutale, ma di quelli che alla lunga ne escono alla grande; il padre, dicevamo, aveva tenuto un bel discorso alla moglie:
«Serafina, parliamoci chiaro, la nostra Elena sarà dura che trovi qualcuno che un domani la sceglie per quel che è. Facciamola studiare meglio che possiamo, così potrà capire da sola se chi la vuole lo fa per vero sentimento o per tornaconto».
Ora, simili parole a una madre non è mai cosa. Ma dopo una discreta salva di strepiti e qualche fazzoletto intriso di lacrime, con tanto di «questa è l’ultima che mi fai, Celso», Serafina Bonomelli Santus nata Gelmini si convinse che il marito aveva ragione anche quella volta. E allora ecco studi di livello per la Elena, un investimento a tutto tondo per quella personcina affinché risultasse dolce nei modi, vezzosa nel portamento ed elegante, per non dire unica, nel vestire. Al punto che, alle prime avvisaglie che qualcuno stazionava più del consueto dalle parti della figlia, la Serafina era passata
da un’incontenibile gioia – completa di furtiva concessione notturna al marito – a un vero e proprio sconforto quando aveva appreso, e visto, di chi si trattava. Uno che portava a spasso il vino, e magari ne profittava, anzi di sicuro; un Curnis qualunque, per giunta Spiridione; magari educato, sempre con il berretto in mano, ci mancherebbe, ma scarso a parole e lento a pensieri. Insomma, la signora se la prese dritta con il marito perché tutto l’impegno profuso per sgrezzare la figliola rischiava di rimbalzare al mittente sotto forma di biciclista senz’arte né parte e brutto come il peccato.
«L’abbiamo tirata su così, cosa vuoi fare, cambiamo adesso?» rispose il Celso, che più sereno non si può. «Se ci mettiamo di traverso, lo sai com’è fatta la Elena, continua a frequentarlo per contraddirci. Se la lasciamo stare, invece, magari cambia idea da sola. Dai Serafina, vedremo».
Vedremo: com’è noto, il no al maschile si declina in almeno tre combinazioni: il “vedremo” per l’appunto significa “lasciamo andare che tanto”; il “vediamo” sta per “magari qualcosa la possiamo anche fare, però insomma”; e il magico “tu cosa ne pensi, tesoro?”, ovvero il no tattico, in attesa che il nemico prenda posizione.
Per la Ona, invece, quell’appuntamento al “Gambrinus” era una manna: lei e lo Spiridione a passeggio, e di sera, e da soli. Anzi, precisiamo: non da soli, ma in coppia nel locale più in vista della città. Il biciclista era pronto a sfidare le occhiate degli altri, magari pure i mezzi sorrisi. A sfidarli per lei, con lei. Quello dello Spiri era amore vero, cieco come tutti gli amori che si rispettano. Roba da cacciare tre sospiri di fila, ammesso che bastino.
Ecco perché, quando lui propose l’invito, a lei tremarono i polsi: le ginocchia no, la taglia non l’avrebbe consentito. Di sicuro quella sera lui le avrebbe fatto la dichiarazione, magari ci stava pure l’anello: il Curnis aveva capito che a lei doveva parlare, non ai genitori, perché la Elena era una donna libera. Non dipendeva da nessuno, se mai era stata di peso.
“Il mio Spiridione ha capito tutto: il ‘Gambrinus’ è perfetto” si era detta, facendosi pure i complimenti perché nel giro di pochi mesi il ragazzo l’aveva svezzato al meglio.
In verità il Curnis tutti ’sti giri di pista non li aveva neanche cominciati. Il suo intento era minimo, essenziale: aveva soltanto bisogno di un parere sul piano del Dante. Stop. E aveva pensato al “Gambrinus” giusto per dare spessore alla cosa, per far sentire importante la Elena.
A tre ore dall’amoroso convegno, però, il biciclista si rese conto dell’inghippo in cui si era ficcato. Non all’impegno futuro pensava, men che meno alla dichiarazione, figurarsi l’anello, e quando mai. I maschi a certe cose ci arrivano solo quando li metti alle strette e delle volte neanche allora. No, lo Spiridione si era semplicemente immaginato mentre schiudeva la porta a vetri del locale, lui vestito come si può, lei come non si dovrebbe; gli sguardi dei presenti che vanno alla coppia, incontrando nell’ordine: una ragazzona sui venticinque, intorno all’uno e ottanta, novanta chili tutti, anche peggio. Quindici centimetri sotto – trenta se contiamo il copricapo di lei – e venticinque chili in meno, un trentenne che gli anni li porta male, il naso schiacciato, le gambe storte e i pochi capelli a spasso per la calotta.
Al pensiero di loro due sulla soglia del “Gambrinus”, il Curnis stava per mandare tutto a monte ma poi, pensandoci bene, comprese che il parere della Ona era decisivo. Aveva bisogno di lei, c’era poco da fare.
“Dai, se non è amore questo…” si convinse in un sospiro. Chiarendo come qualmente il breviario amoroso maschile si compendia di pochissimi commi. Nei casi limite giusto uno.
“Potremmo andare al ‘Litrone’” si disse per limitare i danni.
Non finì la frase che gli vennero a galla i boccali del “Litrone”, una sfilza di pinte in terracotta allineate sopra il bancone con dipinto il nome dell’avventore accanto a scritte tipo: “Bevi e paga!”, “Questo nettare ti risuscita”, senza trascurare il definitivo “Chi beve non è morto e non morrà”. No, non era proprio il caso. In quel locale il più educato si soffiava il naso nella manica della camicia e si potevano ascoltare certi cori da oltraggio, per non dire da arresto.
Scartato il “Litrone”, il Curnis non ebbe più tempo o voglia di pensare ad altro. “Dai, vedremo” concluse alla maschile, rassegnandosi al “Gambrinus”.
L’ingresso della coppia nel caffè fu proprio come lo Spiridione aveva paventato, cappello di lei incluso: occhi appiccicati da tutte le parti, indici puntati e battutine, nonostante lui si fosse diretto con passo sicuro verso l’unica zona in penombra, quella con vista bagni.
Tra l’altro quella sera al “Gambrinus” c’era una variante che rendeva la situazione assai complicata per i due spasimanti: era in corso la mensile riunione del giornale satirico “Il Giopì”, riferito per esteso “Il Gioppino sotto i portici”, ovvero quanto di più spinto e mordace si stampasse allora in terra orobica. Il redattore Birolini intonò subito motteggi assai poco costumati e assai tanto mirati. Frasi che non possiamo né vogliamo riportare, tranne un malizioso «ne facciamo a mezzo?» che ingenuamente i due innamorati riferirono alle ordinazioni. Gli sfottò proseguirono a oltranza, ma la Ona era talmente presa dalla novità di loro due insieme che non ci fece caso. Mentre il Curnis, già sulle uova in generale, era lì che si poneva il rovello di dove cominciare, e in quello si risolse a stare.
Ma prima ci fu un prima: la comanda. Il biciclista, che non aveva fatto mente locale, chiese un calice: lei lo guardò in tralice, e non certo per fare rima. Lui si corresse in birra, ma mentre lo diceva sapeva già che non andava bene neanche quella.
«Porto, due. E qualche cantuccio» ordinò lei per entrambi.
Al che, via alla catena degli equivoci. Il Curnis non voleva mettere in discussione la sua bella, ma porto cosa? Cosa deve portare la Ona, e in un caffè poi? Non è il cameriere che porta, di solito? Sennò uno perché dovrebbe sborsare quattrini? E “porto due”? Questo era semmai repertorio della scopa, la Ona non se la figurava capace. E poi: in che senso cantuccio, diobuono? A meno che, e qui un sorriso a mezzaluna, a meno che la Ona non ha in mente un cantuccio per dopo, un angolino tutto per noi due soli soletti, e sarebbe anche ora, qui si vede che sono attrezzati, io non ci sono mai venuto.
Aggredito da dubbi amletici e speranze colossali – l’ordinazione ermetica in effetti si prestava –, il Curnis preferì starsene zitto; per vedersi recapitare di lì a poco un bicchierino di quelli che non ci sta dentro neanche uno scaracchio e un vassoietto di biscotti duri come quelli del Carlo. Anzi, peggio.
“A ’sto punto tanto valeva il ‘Litrone’, almeno lì le porzioni sono di più” si abbatté. Ebbe comunque il buonsenso di imitare i modi della signora, che accostò semplicemente le labbra al bicchierino, mentre lui stava per tracannare di bestia.
«Il porto lo adoro» fece lei con un sospiro. «Con i cantucci, poi…».
Fine dei dubbi del Curnis. Ma anche delle speranze, diobuono.
«Allora, Spiri, a cosa debbo l’onore?».
La Ona era andata subito al sodo. D’altronde, se non andava al sodo lei, vorrei vedere chi.
Il biciclista stava ancora ruminando le parole. Preso alla sprovvista, e non potendo esibire uno straccio di “vediamo” o di “vedremo”, si fece cauto:
«No, dai, era da un po’ che mi dicevo che una sera magari noi due…».
Lei assunse la figura dell’attesa: testa di tre quarti, occhio vigile, orecchio pronto. Lui non sapeva proprio come procedere, e nel dubbio non gli restò che andare dritto al segno:
«Ascolta, Elena, ecco, avevo bisogno di un tuo parere».
E quasi senza prendere fiato le scucì per intero il piano del Dante.
Dopo il racconto la Ona tacque. Ogni tanto sollevava il bicchierino, boccuccia e via. Improvvisamente chiarì il suo pensiero:
«Sì, ma dopo?».
Al Curnis gli venne un rosso in faccia che si vedeva dalla porta d’ingresso. Non era colpa della cosa dolce che aveva bevuto, no, era che la Ona aveva detto proprio le sue parole!
«Elena, gliel’ho chiesto anch’io al Dante! Uguale preciso! E lo sai cosa mi ha risposto? “Vedremo”».
La ragazza si fece seria, stava vagliando la questione. Una fanciulla educata come lei, figurati: certo che un furto è un furto, non puoi cambiare le carte in tavola. Meglio replicare per bene, dopo opportuna pensata. Accostò quel rosolio alla bocca. Poi posò lentamente il bicchierino. Pensierosa, la dama, che finalmente si dichiarò:
«Vedremo un cazzo!».


2 Commenti

  • Ida Bamberga Premarini Posted 5 Giugno 2022 09:50

    Alla pagina del romanzo “Esperia” viene fatta una premessa perfetta, l’analisi convincente di un’ardua tecnica letteraria. Ma cosa volete, io, nello stile calzaniano, ci vedo solo un prezioso dono di natura, arricchito da sprazzi di esilarante magia. Mi sono riletta la pagina proposta, proprio con il libro tra le mani, perché volevo agganciarla al quadretto precedente e a quello successivo. Una delizia. Per farsene un’idea, è sufficiente gustarsi l’elucubrazione di Spiridione dopo la richiesta della Ona al cameriere: «“Porto, due. E qualche cantuccio” ordinò lei per entrambi. Al che, via alla catena degli equivoci…». È tutto un susseguirsi di situazioni concrete e assurde allo stesso tempo, di frasi dette e immaginate, seguite da commenti inaspettati e folgoranti. Un momento di grazia liberante, il regalo di un sorriso (e, perché no, di una sonora risata) in un tempo che ne ha quanto mai bisogno.

  • Carla Pozzi Posted 31 Maggio 2022 16:17

    Il finale è una risata liberatoria alla fine di un testo letto sorridendo e immaginando e collocando (io li vedevo in una valle bergamasca con propensione alla Brembana) i personaggi ben individuati. Complimenti!

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