De l’amour

Per la rubrica “sette camicie”, ovvero quali testi mi sono costati più fatica, ecco un brano del mio terzo romanzo, Lux. Qui una fanciulla, Esperia, si rivolge a Spiridione Curnis – che già dal nome avete capito che magari non era il più adatto – per capire quel che le si agita dalle parti del cuore. Una materia spinosa, l’amore, e questo è il primo livello di difficoltà; poi metteteci una ragazza forse troppo giovane e un adulto non proprio a bolla in quanto a sinderesi; non dimentichiamo poi certe difficoltà di relazione, connesse guarda caso ai pronomi personali; infine, l’inaspettata convergenza tra la lingua dell’amore, il francese, e il ben più ruvido bergamasco. Insomma, proprio un bel pastiche.


De l’amour

Una certa sera del giugno Novecentoventitre, Esperia sentì che era venuto il momento. A fine turno il Dante stava contando al Romeo la sua idea di realizzare un tendone per gli spettacoli estivi: con il successo del cieco gli erano venuti un monte di piani, proprio come ai vecchi tempi. A quel punto il Curnis si era fatto da parte. Il biciclista era fatto così, lasciava sempre agli altri il delicato compito di avere ragione.
La scena sarebbe andata avanti di sicuro: non c’era nemmeno il Carlo a buttarla sul ridere, era sparito che doveva fare il pane. Giusto in quel mentre Esperia prese a ronzare attorno al Curnis, voleva attaccare bottone, coinvolgerlo nel problema che le assillava petto e precordi. A diciassette anni quel che ti preme dentro ti pare che debba valere per tutti e ciascuno: genitori esclusi, sia chiaro.
A un minuto dal via la ragazza si rese però conto di un problema non da poco: lo chiamo Curnis o Spiridione?
“Curnis mi viene in mente il cane”.
Pausa della serie figurati.
“Spiridione mi fa ridere”.
Pausa della serie ci mancherebbe.
E poi c’era un’altra questione piuttosto spessa.
“Cosa gli dico? Scusa mi serve un consiglio, sai c’è uno che ogni volta che lo vedo…”.
Manco lei sapeva come rubricare la faccenda.
“Magari mi viene meglio proprio perché il Curnis non lo conosco bene” si disse per farsi coraggio.
Pia illusione. Non erano tempi, quelli, che certe questioni le potevi squadernare a chicchessia. Però la faccenda urgeva, sbatteva nel petto come la falena che lì accanto si accaniva dentro il fanale della pubblica illuminazione. Mai contente, le falene: fanno di tutto per stare dalla parte del chiaro e poi, quando sono in gabbia al lampione, non vedono l’ora di saltarne fuori.
Per l’Esperia il tormento per quel dialogo non era mica finito, anzi:
“Gli do il voi o il tu?”.
Agli amici di casa dava il tu, ma il Curnis era diverso, c’era e non c’era, parlava poco niente, non era di quelli proprio a portata di mano. Morale, tra il tu e il voi Esperia non sapeva come prenderla prima ancora di spiccicare parola. Senza dire che a quell’epoca in città c’era pure chi usava il lei, della serie qui mica siamo in campagna.
Esperia si baloccò ben bene tra l’una l’altra e quell’altra, ci provo, ovvero lasciamo stare che è meglio: alla fine optò per il sì, al massimo gli dico che era così per dire. E si decise a varare una prosa neutra, di quelle buone per tutte le stagioni:
«Disturbo?».
Il Curnis manco si accorse.
«Posso?» bussò nuovamente la fanciulla.
«Io?» fece il biciclista, indicandosi pure con il dito.
Esperia annuì.
«Cosa c’è?» fece l’uomo, poco abituato a esser chiamato in causa dal genere femminile. L’ultima volta era successo con la Ona, e abbiamo visto com’era andata a finire.
«Ecco, magari…» inciampò Esperia al primo passo.
Sguardo interrogativo del Curnis.
«Ecco, avrei un dubbio».
A ben vedere, più che un dubbio era una certezza, ma lasciamo stare che la fanciulla era già impacciata di suo.
«Sento come una cosa qui» completò lei, indicando quel luogo impreciso che insiste tra petto, stomaco e cuore. «Delle volte mi capita con una persona» chiarì subito appresso.
Il Curnis continuava a non capire, e non possiamo certo dargli torto. Non sapeva che pesci pigliare, ma si impegnò con tutto se stesso per elaborare un pensiero degno del tema, atto a favorire l’opportuno chiarimento:
«Cioè?».
Colpita dall’eloquio del Curnis, la sventurata rispose:
«Ecco, c’è questa persona, che quando la vedo…».
Terrore fulmineo negli occhi del Curnis: se una femmina la prende così larga, magari è proprio a te che punta. Ora, lasciando stare la differenza d’età, lo Spiridione ben sapeva di essere uno sgorbio; però con
le donne non si sa mai, capace che si invaghiscono di un rogito notarile dopo averci ricamato un castello di motivi. Al solo pensiero del Dante che annusa la faccenda, il biciclista nemmeno riuscì a terminare l’idea. Deglutì a secco e si fece ancor più guardingo.
«Una persona come, Esperia?».
«Particolare» fece lei trasognata.
«E perché proprio da me vuoi saperlo?».
«Unica» aggiunse quella a rimorchio del suo dire.
Il Curnis si guardò attorno, calcolando mentalmente la distanza che li separava dalla coppia Dante e Romeo, sempre alle prese con tende pali ganci e affini. Lo sciaffór si baloccò tra uno “smettila che è meglio” e un più concreto “non mi interessano niente queste cose”. Carezzò anche l’idea di stare zitto e basta, che tante volte basta e risolve. Infine ascoltò la sua stessa voce contraddirlo:
«Questa persona particolare ti ha detto qualcosa?».
«Niente!».
«Ti ha guardato magari come…».
«No, è uno che non guarda proprio» sospirò la ragazza.
Il Curnis era in seria difficoltà: esser preso a confidente, proprio lui che dopo la Ona aveva detto addio al pianeta rosa, e senza un rimpianto che è uno. Ciononostante riprese:
«Scusa, Esperia, ma io come…».
«Chi è stato a Parigi dovrebbe saperlo come funziona, o no?».
«Sì, ma…».
«Parigi era per amore. Giusto?».
Qui il Curnis prese di tasca la sacchetta del tabacco, si arrotolò una sigaretta. Ma la ripose dietro l’orecchio, fumare accanto a una donna non sta bene.
«Per amore» ammise.
Lasciamo stare gli altri motivi, non è il caso.
«Uno che è stato a Parigi certe cose le sa».
La fanciulla stava miracolosamente evitando il tu, il voi e già che ci siamo pure il lei. Complimenti.
«L’amore è una parola troppo grande alla tua età, Esperia».
Il Curnis certe volte aveva degli sprazzi di giudizio, niente da dire.
«Ho già diciassette anni» protestò lei, «ho un lavoro mio e questo ragazzo è un po’ che lo conosco».
Ragazzo, non uomo. Il Curnis tirò un sospiro al pensiero di non essere il bersaglio. Ma continuava a non capire perché Esperia ne parlasse proprio a lui. Decise di prenderla larga:
«L’amore dicono che lo senti, che ti prende qui» fece puntandosi il cuore. «Figurarsi» concluse con una certa smorfia.
Pausa della serie qui altro che sigaretta ci vuole.
«Meglio se lasci stare, dai. Non sono quello giusto per chiedere».
Il viso di Esperia si rabbuiò. Il Curnis non se ne accorse, al tempo la pubblica illuminazione era giusto una dichiarazione di intenti.
“Sta zitta, meglio così” si fece lo Spiri. Non ne poteva più di quel terreno insidioso, meglio piantarla, e subito. Ma non aveva fatto i conti con la testona che aveva in banda.
«Quindi sei andato a Parigi per niente».
Era passata al tu, e non solo: l’aveva trafitto per bene, così impara.
Al Curnis gli venne il nervoso della festa, come all’epoca delle gare quando perdeva; cioè sempre, o quasi. A quel punto tanto vale fumare, chissenefrega se non è educato. Accese con calma la sigaretta, come a dire colloquio finito, ciascuno per la sua strada.
«Hai buttato via un sacco di anni, Curnis. Tredici, giusto?».
Niente, non mollava la ragazza, hai voglia.
Il Curnis soffiò via un filo di tabacco che gli era rimasto tra le labbra.
«Cosa vuoi capirci tu, bambina?».
Toccava a lui, adesso.
«L’amore, come no? Senti qualcosa qui e dici subito amore. Ma va là. Certe cose le fai dopo, col tempo, non è tutto assieme in una volta che capita».
Sintassi ardita, ma nel contesto ci sta.
«Magari ci metti tempo a decidere» riprese, «sei lì che ti dici: salto o no? Quando hai deciso, il salto l’hai già fatto e neanche ti sei accorto».
Esperia non aveva capito un ette, ma fece sì uguale.
«Ecco, io il salto quella volta di Parigi l’ho fatto: è come mettersi in bicicletto contro il Girardengo, per dire. Sai che perdi, figurarsi con quello, ma se non te la pedali non lo saprai mai».
Tra salti e bicicletti la ragazza aveva perso terreno. E l’atleta mica stava fermo, anzi.
«Ascolta, Esperia: senti il vuoto o brucia?».
«Cosa?».
«Quello che senti per questo qui è vuoto o brucia?».
Esperia si fermò a pensarci:
«No, direi più il vuoto».
«Allora è peggio» sentenziò l’esperto.
A Esperia venne male all’idea di non capire il motivo.
«Io prima portavo in giro il vino della messa» riprese l’altro. «Giravo con il bicicletto, la domenica facevo le gare sociali. E nel 1894 con Buffalo Bill…».
«La so la storia del circo, me l’ha raccontata il Dante, cosa credi!» sorrise la ragazza.
«Comunque, una volta alla fine di una gara mi si è avvicinata la Elena, quella che dopo…».
«La tua innamorata?».
«Sì».
«E tu come hai capito che era proprio lei?».
«Cosa vuoi, le prime volte il suo amore è bastato per tutti e due».
«Un amore per due?» s’illuminò la ragazza.
«Poi l’ho chiesto a un prete» fece lui.
Pausa della serie quando non sai dove girarti il prete va a pennello.
«Sì, a don Giacomo» riprese, «gli portavo l’olocaustico».
Sguardo interrogativo della ragazza. Nel buio non ci si accorgeva, ma il Curnis aveva capito lo stesso l’imbarazzo.
«Il vino della messa» precisò.
E via una boccata. Bacco, tabacco e venere, tutti belli riuniti in un’unica scena.
«Gli ho detto della Elena, non capivo cosa mi succedeva, e don Giacomo è partito dal vino: “Mica è santo quando me lo porti tu, Curnis”.
“No certo” faccio io. “E quand’è che lo diventa, allora?”. “Sull’altare” gli rispondo: “Bravo, e cosa succede sull’altare?”. “Che c’è la benedizione”. “Bravissimo: sull’altare quel vino lì non è più quello di prima, c’è Gesù in quel calice, il suo sangue. Capisci Spiridione?”».
Pausa per dar spago al ricordo.
«Don Giacomo aveva un modo di dire il mio nome che uno non si accorgeva che è strano» concluse guardando per la prima volta negli occhi la ragazza.
«Perché il mio di nome, allora?» rise Esperia.
A onomastica erano compagni di sventura.
«Comunque, don Giacomo me l’aveva fatta capire così: “Cosa serve al vino per diventare sangue del Signore? Serve che in quel calice entra lo spirito del Salvatore”. “E la benedizione, allora?”, gli ho chiesto: “voi preti a cosa servite?”. Allora mi ha guardato storto, ma mi ha risposto lo stesso: “Noi ci crediamo anche per quelli che fanno fatica”».
La ragazza si era fermata al calice, ma le parole del Curnis l’avevano scaldata.
«“Per l’amore quello vero” diceva don Giacomo, “serve il vuoto dove entra lo spirito, come il calice con Gesù. Quello è l’amore”».
«Io il vuoto ce l’ho» rimarcò la ragazza.
«“Se invece il vino brucia nello stomaco”» diceva il prete, «“allora è come quello che ti scoli al Litrone”».
«Ho capito, ma io cosa devo fare?».
«Niente» sentenziò il Curnis.
«Come niente?» protestò Esperia.
«Aspettare» precisò l’altro.
«Ma io sono stufa di non sapere niente».
«In Francia l’amore è più difficile» cambiò scena l’uomo. «In Francia c’è l’amour».
«L’amùr?», fece eco Esperia, ma alla bergamasca.
«L’amore cambia quando te vai da un’altra parte».
«Quindi a Parigi la tua Elena è cambiata».
«Lei, io, tutto».
«Curnis, ma io come faccio? Lui è sempre lì con la sua musica».
«Musica?».
Esperia abbassò il volto e gli occhi belli.
«È l’Enricomaria».
Pausa della serie finalmente l’ho detto a qualcuno.
«La vedo difficile» fece il Curnis.
Pausa della serie meglio essere onesti.
«Molto difficile».

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