San Pellegrino Terme, luglio 1954: Lucio Piccolo viene indicato quale promessa della poesia da Eugenio Montale. Tutti si aspettano un baldo giovanotto e si trovano invece al cospetto di un barone siciliano che ha passato i cinquanta. Un tipo bizzarro, con un robusto servitore e due alani al seguito, autore di componimenti a dir poco barocchi. Lo accompagna un personaggio se possibile ancor più indecifrabile. Si presenta come segretario e portavoce di Piccolo, ma in verità è suo cugino, il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. A San Pellegrino il futuro autore de «Il Gattopardo» incrocia letterati del calibro di Ungaretti, Piovene, Quasimodo, Alvaro, Gatto, Saba, Vittorini. Con la lodevole esclusione di Montale, «poco meno importante di Eliot», il principe li cataloga tutti come provinciali: non conoscono a fondo le letterature europee, non leggono i libri in lingua originale, ignorano completamente autori a suo dire decisivi. In effetti, il palermitano Lampedusa vantava una cultura debordante, con l’assoluto dominio di almeno quattro-cinque letterature, inclusi i più reconditi minori. Il premio al cugino lo scuote: «Avevo la matematica certezza di non essere più fesso di Lucio. Cosicché mi sono seduto a tavolino e ho scritto un romanzo». «Il Gattopardo» nasce anche per puntiglio: l’orgoglio è il bavero dello spirito.
Al caffè Mazzara
Tomasi inizia a dar corpo all’opera al caffè Mazzara, andando in traccia di storie legate alla sua famiglia. La trama del romanzo si riassume in breve: don Fabrizio, principe di Salina, all’arrivo dei Garibaldini avverte il crollo del mondo in cui è nato. Vive in una sconfinata dimora, convinto che un palazzo del quale si conoscano tutte le camere non è degno di essere abitato. Appassionato di stelle e pianeti, che lo ammaliano grazie alla loro inesausta perfezione, approva il matrimonio del brillante e spiantato nipote Tancredi con la figlia – bellissima e ricca per dote – di Calogero Sedàra, uno scaltro borghese. Rifiuta infine il seggio al Senato che gli viene offerto, proponendo al suo posto proprio Sedàra, uno che certo non si cura dei «guaiti dei sopraffatti». L’emblema araldico della famiglia, il gattopardo, è destinato all’oblio.
Riso amaro
La fine di un’epoca è il tema centrale del libro. Tutto si sgretola per Salina, che peraltro nulla fa per cambiare, anzi contempla «la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo». In un momento di disperata lucidità, rintuzza le speranze di riforma del signor di Chevalley, un funzionario piemontese accolto a palazzo: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e iene continueremo a crederci il sale della terra». In assoluta buona fede, il piemontese è convinto che «la nostra amministrazione nuova, agile, moderna, cambierà tutto». Il sorriso amaro di Salina contraddice le ingenue certezze del piemontese. «I siciliani non vorranno migliorare», rammenta all’esterrefatto ospite, «per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; […] Crede davvero lei Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale?». Nel contesto siciliano, dove nulla è come appare, la negazione dei fatti è sopravvivenza, la simulazione una necessità, la dissimulazione un’arte. Ogni pagina del romanzo è percorsa da un’ironia spietata, frutto della consapevolezza che tutto va scomparendo e muore, altro che magnifiche sorti e progressive. Si ride di gusto nel Gattopardo, ma si ride amaro.
L’umanità dolente
Il telescopio di Salina punta alle stelle – che «donano gioia senza nulla pretendere in cambio» – e non alle umane miserie, quasi avesse paura di venirne contaminato. Il principe è indifferente a quel che accade attorno a lui: la Sicilia, in fondo, è sempre uguale a se stessa, nonostante le tante dominazioni. Il sole è l’autentico sovrano dell’isola, perché mantiene «ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti». La condanna di Lampedusa, spietata e senza appello, vale non solo per l’epoca da lui narrata, ma anche e soprattutto per gli anni che gli toccò in sorte di vivere; per tacer dei nostri tempi, a giudizio di chi scrive. Man mano però che il narratore si ravvicina ai propri personaggi, eccolo mutare occhi, e stima. Nel teatro che si dischiude, ciascuno ha il suo tormento, la sua intima ragione: da Paolo, il figlio babbeo, al nipote Tancredi, tanto intraprendente quanto spiantato; da Calogero Sedàra, uomo attento al “come” e non al “perché”, all’organista Tumeo, fedelissimo ai Borboni; dalla sensuale Angelica alle tre figlie di don Fabrizio, irrimediabilmente zitelle, intente a rimestare reliquie che si riveleranno fasulle. Nessuna speranza alberga in queste righe, se non la pietas con cui l’Autore riguarda e assolve la sua piccola umanità dolente e timorosa.
Il successo postumo
La scomparsa di una classe di ottimati, la critica all’impegno politico e sociale degli intellettuali, la totale sfiducia nel progresso agli albori del boom economico, il linguaggio desueto, le lunghe e dettagliate descrizioni, le tante uscite politicamente scorrette: sono tutti elementi che spiegano i rifiuti editoriali collezionati dal Gattopardo prima che Giorgio Bassani – conosciuto da Tomasi in quel di San Pellegrino – si spendesse per la pubblicazione dell’opera. Il trionfo fu immediato e clamoroso: uscito l’11 novembre 1958, il romanzo vendette oltre 400mila copie in tre anni. Ma il principe non poté gioirne. La morte l’aveva colto a Roma il 23 luglio del 1957, lontano dalla sua casa natale, distrutta dai bombardamenti nel 1943. Una morte per certi versi simile a quella immaginata per don Fabrizio, personaggio che troppi critici hanno frettolosamente identificato con il suo Autore. È l’ultima, tragica beffa per un uomo di cultura che il nostro Paese dovrebbe annoverare con affetto e riconoscenza tra i suoi figli irripetibili e migliori.
Qui altri ritratti di g.a.d.d.a. (grandi autori dimenticati da anni)
3 Commenti
Vicenda paradigmatica quella di Lampedusa, sorte simile è accaduta a tanti intellettuali italiani che si sono opposti alla cultura dominante, alle scelte prevalenti, alle mode ma anche alle consorterie. Altro che i libri dei nostri giorni!
Ma c’è oggi in italia – se non oggi, ieri – che possiamo paragonare a Tomasi di Lampedusa?
Che bello il Gattopardo! E poi bisognerebbe ricordare anche i Vicerè di De Roberto, altro capolavoro!
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