
Son qui che sfoglio il libro Irpinia 1980. Evocare il terremoto. Ripensare i disastri, edito da Effigi. Apro una pagina a caso e l’occhio mi cade su una citazione di Pavese: «Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi». Immagino che sia tratta da Il mestiere di vivere, o perlomeno son convinto che lì ci starebbe bene. In ogni caso, la frase è perfetta per descrivere quel che ho scritto in questi mesi: anch’io dell’esperienza irpina ho fissato dei frammenti, immagini che mi hanno guidato e quasi obbligato a scrivere. La memoria il percorso intero se lo scorda, ma grazie a quel poco che trattiene riesce comunque a rievocare la storia complessiva, il tono, l’emozione. Henry James diceva che i suoi romanzi nascevano da una sorta di image en disponibilité, così potente che allo scrittore non restava altro che svolgerla pazientemente passo passo. Ecco, si parva licet da un’immagine è scaturita anche la mia trilogia narrativa. Esperia, Lux e La cantante hanno preso vita dalla fotografia del fidanzamento dei miei nonni paterni. Ai tempi lo scatto si faceva prima di sposarsi, figurarsi se c’erano i soldi per un servizio in chiesa. Anzi, ai tempi non era proprio cosa. Siamo nel 1926, Umberto è in piedi e a ben vedere ti accorgi che tiene gli occhi chiusi: per colpa del morbillo era cieco dall’età di tre anni. Caterina sta seduta alla destra del promesso, con il vestito bello, l’unico a quel che mi raccontava sempre, lei che a 8 anni in alpeggio da sola custodiva la mucca di famiglia, che di nome faceva Bianchina. Nella fotografia mia nonna ha poco più di vent’anni, lo sguardo rivela una certa sfida, come a dire: «Ho scelto un cieco, e ne allora?». I suoi genitori non ne volevano sapere di quell’uomo e le sfilarono la dote. Matrimonio povero e d’amore. Ricordo che una volta un tizio – io ero proprio piccolino – da sotto il balcone le chiese come mai avesse scelto proprio l’Umberto, uno che insomma, con quel problema… «Perché al vostro paese non si usa?», aveva risposto lei decisa, una domanda a troncar la discussione. Ecco, quando i son messo a raccontare l’Irpinia, non avevo fotografie da cui prendere le mosse, nemmeno avevo letto libri di memorie o saggi. Ero convinto d’aver ormai archiviato quella mia porzione di vita, roba passata in giudicato. Ma lo scorso settembre ci sono tornato in quei paesi, e come d’incanto le immagini interiori si sono fatte strada: nulla ho fatto per tenerle a bada, le ho lasciate agire, e ciascuna m’ha recato in dote momenti che se ne stavano lì pronti a tornare a galla. E poi: ero sicuro che me la sarei cavata con qualche puntata, giusto una decina. Invece i capitoli son diventati 34, e allora mi son detto che in questo numero dev’esser pur celata una ragione. Fedele a una certa cabala minore, ho interrogato la cifra finché non ho rintracciato il vaticinio: 34 è somma di 23 e 11, ovvero il giorno e mese in cui avvenne il terremoto; e 34 è il minuto in cui iniziò la scossa, alle 19 di una domenica di novembre che pareva estate.
Non ho preso note durante il recente viaggio, nemmeno una riga. Ho scattato qualche foto con il cellulare, certo, ma molte meno di quelle se avessi immaginato di scrivere questo resoconto. Tutto è nato dopo, a casa. Mi son fatto bastare l’idea di comporre una puntata alla settimana, senza uno schema preciso. A partire da un ricordo abbozzavo il testo, che poi andavo correggendo fino al giorno della pubblicazione sul mio blog, e a volte pure dopo. Eppure oggi, a lavoro ultimato, vedo che un percorso c’è, ed è pure chiaro: i ricordi si sono disposti in ordine cronologico, certo, ma anche secondo una linea di guadagno emotivo, ripescando frammenti della mia vita familiare presente e passata. Solo ora che l’ho scritta la mia avventura di volontario a Teora mi appartiene per davvero. Faccio mie le parole che Goethe invia da Roma l’8 giugno 1787 a Charlotte von Stein: «… ho conosciuto delle persone felici che lo sono solo in quanto sono intere, anche l’essere umano più mediocre se è intero può essere felice e, alla sua maniera, pure perfetto. Ecco la meta che devo e voglio raggiungere, e credo che ci riuscirò; almeno so qual è la direzione da prendere. Durante questo viaggio ho imparato a conoscermi al di là di ogni immaginazione. Sono stato restituito a me stesso e quindi ancor di più a te». Torno a sfogliare Irpinia 1980. Ai tanti autori è stato proposto di lavorare in un modo singolare, che magari somiglia al mio: ciascuno di loro ha ricevuto delle immagini distinte per tema, e a partire da quelle visioni ogni scrittore ha imbastito il proprio pezzo. La lettura complessiva è frutto delle diverse voci e dei tanti sguardi. Il commento alle immagini doveva essere «argomentativo ed emozionale a un tempo», si legge. Gli autori non sono stati chiamati a ricordare, quanto a evocare quel che hanno provato nel vedere la sciagura attraverso queste immagini di un bianco e nero silenzioso e senza appello. Mi viene in mente un video splendidamente musicato da Giusy Famiglietti. E a corollario una poesia di Mario Luzi, come sempre definitiva.
Bruciata la materia del ricordo ma non il ricordo.
Il ricordo impera ugualmente. È lui
che oltre la storia e oltre la finita reminiscenza
lungo tutta la lunga mattinata estiva osserva
la piazza prima in ombra inondata dalla trasparenza
tramutarsi in un vaso di fulgore offuscato dall’accecamento
con nient’altro tra ripa e ripa di pietra e marmo che la sua forza.
Lui solo e da sotto le tegole una buba
di colombi che quasi di troppa beatitudine la scolma.
Ricordo senza limiti, ricordo senza corpi né ombre.
La poesia salva il passato, chiosa il poeta in nota, «solo riscattandolo dalla sua condizione di passato, dall’avvilimento del ricordo. Essa lo reinserisce dunque allo stesso titolo del presente nella circolazione del tempo che è, bene o male, tutto presente nel linguaggio della creazione poetica, così come lo è nella natura. La memoria resta una facoltà sovrana: non perché fissa il tempo ma perché lo libera dalla fissità di passato e ne cattura i segni operanti, ne rivela la continuità e concorre a decifrare il senso della realtà vivente». Sì, il terremoto irpino, come qualunque sciagura, non può essere declinato soltanto al passato, anzi è tuttora operante e vivo, ci riguarda ancora tutti. Quella tragedia è la chiave per leggere il presente di una terra ricca di beni naturali e per ciò stesso depredata, che si va perdendo come se la scossa fosse ancora in atto. Una terra che si culla nel presente, rassegnata, che si contenta di qualche mancia, mentre il passato sbiadisce e il futuro si allontana. Scrive Anthony Oliver-Smith in What is a Disaster?: «Un disastro è reso inevitabile dal modello di vulnerabilità storicamente prodotto, evidenziato dalla posizione, dalle infrastrutture, dalla struttura sociopolitica, dal modello di produzione e dall’ideologia che caratterizzano una società. Il modello di vulnerabilità condizionerà il comportamento degli individui e delle organizzazioni nel corso della storia di un disastro molto più profondamente di quanto non faccia la forza fisica dell’agente distruttivo». È proprio così: la vulnerabilità è più potente di un qualsiasi fenomeno naturale distruttivo. E l’Irpinia è tuttora vulnerabile e indifesa, anzi lo è ancor più che nel 1980. Oggi rischia di venir sopraffatta non da una scossa, ma dalla sua stessa vulnerabilità. E stavolta non ci sarà bisogno di un terremoto per metterla in ginocchio: è sufficiente il tempo, basta aspettare. Se vuole sottrarsi a questa ennesima sciagura, la gente d’Irpinia è chiamata imparare a farsi di nuovo vicina e solidale. Deve ritrovare dignità e lavoro, appartenenza e comunità, appigliandosi alla forza di chi non ha nulla da perdere, proprio perché troppo ha già perduto. Un destino, questo, che da sempre la ferisce, e doma.
Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
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