Il dito nella tazza

Un quadro di Paolo “Toldo” Quaresima (Merano 1962).

«Affronto i problemi letterari proprio come faceva
la governante cieca del dottor Johnson quando
versava il tè: metteva il dito nella tazza».
Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo

«La carta è un materiale troppo tollerante.
Le puoi scrivere sopra qualunque enormità,
e non protesterà mai».
Primo Levi, La chiave a stella

Intanto vi dico questo e poi vediamo: a proposito di letteratura, una faccenda è lo scrittore, un’altra il narratore, e mi sa che io sono stato un po’ l’uno, un po’ l’altro. Il che significa che magari vi posso guidare – sempre se vi fidate – nei meandri della spinosa questione che la gentile direttrice di Just-Lit, Rossella Monaco, mi ha affibbiato. Ma procediamo con ordine, o quasi.

Ego scriptor?
Era l’otto settembre, la data avrebbe dovuto suggerire un po’ di cautela. E invece no. Dovevo rinnovare la carta d’identità e nel tragitto verso gli uffici comunali mi ero interrogato su quale professione indicare. Optai, ridacchiando, per scrittore, volevo vedere che faccia avrebbe fatto l’addetto. In effetti, a quel tempo avevo pubblicato tre romanzi, e pur non avendo scalato classifiche di sorta, e men che meno venduto chissà che, mi aspettavo perlomeno una qualche domanda, dei distinguo, persino un categorico rifiuto. L’impiegato invece non fece una piega, proprio come quel barista altoatesino al quale parecchio tempo prima avevo ordinato una Coca Cola bollente, per vedere se eseguiva il comando. Anche qui neanche una piega: il ragazzotto versa la lattina nel bicchiere e via sotto il beccuccio del vapore. La Coca mica l’ho bevuta, ci mancherebbe, mentre all’Anagrafe si son bevuti la qualifica, accidenti. Da quell’istante ho iniziato a dubitare di essere quel che la mia carta d’identità ancor oggi certifica.

Mio padre, mia madre
Maggio 2008: l’indimenticabile Fulvio Panzeri presenta due esordienti, il giovanissimo Giorgio Fontana e il meno giovane Claudio Calzana. Considerava i nostri due romanzi i migliori di quella stagione, bontà sua. Alla domanda sul perché ci fossimo messi in testa di scrivere, Giorgio rispose con parole esatte e misurate. Sui due piedi, io coniai piuttosto un sillogismo: siccome chi mi ha spinto a scrivere è stato Andrea Vitali; e Andrea, oltre che scrittore, è medico; io scrivo perché me l’ha detto il dottore. Oggi so di non potermela cavare con così poco, le battute non sciolgono i nodi veri, semplicemente intrattengono un pubblico. Ci provo ora: ho iniziato a “sentire” il mio primo romanzo dopo la morte di mio padre; la trilogia l’ho scritta dopo la morte di mia madre. Proprio vero che in certi momenti complicati «l’uomo si rifugia nel linguaggio» (Nicolás Gómez Dávila, Tra poche parole). Non solo: come chiarisce Agamben, scrivere è «parte di una pratica ascetica, in cui la produzione dell’opera passa in second’ordine rispetto alla trasformazione del soggetto scrivente» (Il fuoco e il racconto). Chi scrive si tempra attraverso la scrittura, per il tramite di penna e di mano: «Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi». (Cristina Campo, Gli imperdonabili). Quando il pensiero si china sulla carta, lo scrittore cerca di trattenere quel che crede di possedere, o quel che teme di dimenticare. Nel mio caso: quando è morto mio padre ho fatto i conti con me stesso, quando è morta mia madre li ho fatti con chi mi stava accanto.

Il mago Houdini
Henry James diceva che i suoi romanzi nascevano da una sorta di image en disponibilité, così potente che allo scrittore non restava altro che svolgerla pazientemente passo passo. Si parva licet, è successo anche a me. L’immagine che ha originato il mio romanzo d’esordio era il sorriso del defunto conte Salani sul letto di morte. Guarda caso. Per la successiva trilogia, è stata la fotografia di fidanzamento dei miei nonni. Riguarda caso. Quanto a Il sorriso del conte, avevo scritto giusto un racconto con il medesimo titolo, mai e poi mai avrei pensato di dargli seguito se Andrea Vitali non mi avesse spronato a farlo. Solo che la situazione era paradossale: dovevo scrivere un romanzo con il protagonista morto alla prima riga. Mi ero messo in trappola da solo, come fanno quei tizi che si fanno chiudere in casse con tanto di catene e lucchetti, per poi uscirne non sai come, persino da sott’acqua. Escapologia si chiama quest’arte. Houdini, per dire, venne sfidato a forzare una cassaforte assolutamente inespugnabile. Con un gesto inatteso vi si fece chiudere dentro, uscendone dopo pochi secondi tra lo stupore degli astanti. Le casseforti, come certe vicende complicate, son fatte per resistere da fuori, non da dentro. È una buona metafora per capire non solo chi è uno scrittore, ma anche la lingua nella sua dimensione essenziale. «Che cosa comunica la lingua? Essa comunica l’essenza spirituale che le corrisponde. È fondamentale sapere che questa essenza spirituale si comunica nella lingua, e non attraverso la lingua» (Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini). La lingua, insomma, non è uno strumento, ma un luogo – ampio o angusto, questo decidetelo voi – circondato da pareti spesse come mura. «Spesso sono vicino al muro del linguaggio e ne colgo ormai soltanto l’eco. Spesso sbatto la testa contro il muro del linguaggio», scrive Karl Kraus, citato da Roberto Calasso nella prefazione a Detti e contraddetti. Ecco, con il mio primo romanzo ho accettato il rischio di stare dentro la lingua, provando a forzarla dall’interno, proprio come insegnava Houdini. Ho cercato con tutto me stesso di essere all’altezza di quel Prologo che tuttora considero una delle cose migliori che ho scritto. Non potevo tornare indietro, modificare questo o quello: dovevo accettare la sfida e mantenere la medesima qualità di scrittura. Non a caso ci ho messo anni a terminare Il sorriso del conte, riscrivendolo almeno una dozzina di volte. Con la trilogia (Esperia, Lux, La cantante) ho dato invece ascolto alle voci della mia infanzia, pagando un tributo alla mia storia familiare. Certo, anche in questo caso ho levigato e rivisto parecchio, ma soprattutto ho lasciato spazio e spago ai racconti di mia nonna, rammemorando storie, leggende e vite. Nel primo caso forse sono stato scrittore, nel secondo probabilmente narratore.

Scrittore, narratore
Per definire lo scrittore chiediamo aiuto a Paul Valéry: «Prendo la penna per l’avvenire del mio pensiero – non per il suo passato» (Quaderni, I). Qui l’orientamento è verso quel che deve accadere, alle possibilità che la vita ci mette davanti. Chiosa Kundera: «È necessario […] intendere tanto il personaggio quanto il suo mondo come possibilità. In Kafka, tutto questo è evidente: il mondo non assomiglia ad alcuna realtà nota, esso è una possibilità estrema e non realizzata del mondo umano» (L’arte del romanzo). E il narratore, invece? Ci aiuta Günter Grass, che nelle prime pagine de Il tamburo di latta scrive: «Prenderò le mosse lontano da me stesso; poiché nessuno dovrebbe descrivere la propria vita se non sente di possedere la pazienza, prima di datare la propria esistenza, di commemorare almeno una buona metà degli avi». Se lo scrittore ha lo sguardo rivolto al futuro, e prende di petto il linguaggio e le sue insidie, il narratore si radica piuttosto nella comunità di appartenenza, esplorando le proprie radici, le storie di famiglia, tracciando il confine della propria appartenenza. L’opera dello scrittore nasce da un “se” portato alle estreme conseguenze, quella del narratore da un “c’era una volta” che rimanda al qui e ora. Alla fin fine, è ancora Walter Benjamin che parla, lo scrittore si preoccupa del «senso della vita», il narratore della «morale della storia». La differenza non potrebbe essere più netta: «Il romanzo si distingue da tutte le altre forme di letteratura in prosa […] per il fatto che non esce dalla tradizione orale e non ritorna a confluire in essa. Ma soprattutto dal narrare. Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita–; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Il romanziere si è tirato in disparte. […] Scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente» (Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov).

Un quadro di Paolo “Toldo” Quaresima (Merano 1962).

Lingua, comunità
Lo scrittore, dunque, abita il linguaggio nel segno di un’operazione squisitamente letteraria: abusa della lingua, dice Goethe in Poesia e verità; combatte contro il linguaggio, sostiene Wittgenstein in Pensieri diversi. Lo scrittore «non può essere definito in termini di ruolo o di valore, ma solo da una certa coscienza di parola» (Roland Barthes, Critica e verità). Il narratore, invece, abita la comunità in cui risiede, operazione mnestica per eccellenza. La produzione del primo non regala certezze, non professa valori solidi e condivisi, spesso invoca ed esplora altri mondi e possibilità; l’opera del secondo è agganciata al reale in termini d’esperienza, se non diretta, almeno sentita dire o appresa. Se scrittore e narratore li mettiamo spalla a spalla, magari appare Giano bifronte, altra potente immagine della lingua. In ogni caso, «il sapere che la letteratura mobilita non è mai né assoluto né ultimo; la letteratura non dice che essa sa qualcosa, ma che sa di qualcosa; o meglio: che ne sa qualcosa – che la sa lunga sugli uomini» (sempre Roland Barthes). Ma le due figure non sono affatto sovrapponibili: scrittore è chi si collega a una tradizione letteraria per omaggiarla, per innovarla, per contrastarla. (Italo Calvino, Tommaso Landolfi, Daniele Del Giudice e persino Cesare Pavese, se si legge la sua opera come contorno di miti, in particolare nei Dialoghi con Leucò). Ossequio o sovversione che sia, lo scrittore si atteggia nel linguaggio e nelle sue vicende storiche con impegno accurato nel riferire un proprio stato d’animo prevalente di fronte al mondo e ai suoi enigmi, anche quando la sua scrittura sia intonata nel registro “oggettivo”. L’impronta dell’autore sovra determina il testo e lo raccomanda per la sua riconoscibilità formale. Col narratore, pur non mancando le attenzioni inevitabili agli elementi di stile, ci si trova invece in una dimensione verbale che non è altro dalla trasposizione nel linguaggio di una specifica communitas, di un gruppo sociale, di una classe, di una voce collettiva che può avvalersi di una tonalità “realistica” tanto quanto di quella simbolica ed esemplare: sia per cantare una problematica persistenza della communitas, sia per indicarne il declino e il disastro. (Primo Levi, Luigi Meneghello, Elsa Morante, Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Il narratore è il tramite di un’esperienza collettiva del mondo, del suo fiorire come della sua dissoluzione. Da una parte la conseguenza storica e filologica di una lingua, con tutte le sue increspature e le sue avventure; dall’altra la celebrazione dello spirito di un popolo con tutte le speranze e con tutte le tragedie che lo hanno angustiato, esaltato o fatto sparire nel gorgo del tempo. Così accade che uno scrittore componga con il contagocce, sempre in preda a mille ripensamenti: «Thomas Mann era un prodigio di produttività. Lavorando a tempo pieno, scriveva una pagina al giorno. Ciò significa 365 pagine all’anno, poiché scriveva tutti i giorni: un libro di lunghezza accettabile all’anno». (Annie Dillard, Una vita a scrivere). Mentre il narratore procede col passo svelto di chi ha anche altro da fare. Prendete Stendhal: per lui prima venivano le belle compagnie, mangiare e bere comme il faut, per tacer di guerre e di dame; poi arrivava la scrittura, sbilenca finché volete, a tratti persino arruffata, ma quanta vita, quanto sapore nelle sue opere! Sapientia dicitur a sapore, garantiva Tommaso Campanella. Lo scrittore rinuncia dunque alla vita per scrivere, il narratore distilla le sue opere dal vivace rapporto col mondo. Il primo vive scrivendo, il secondo scrive vivendo.

A orecchio
Ecco, nel comporre i miei romanzi io ho pencolato tra sfida al linguaggio e adesione alla communitas, tra universo delle possibilità e piccolo mondo familiare, tra vita mancata e vita vissuta, confidando di far sintesi grazie al mio stile, alla mia inflessione. Mi sono interrogato a lungo su dove sciacquare i panni, poi ho deciso che era meglio rimanere in zona, diciamo Lombardia che si fa prima. Una prosa sporca quel tanto che basta per renderla un po’ più autentica, come la faccia degli scugnizzi nei film del Neorealismo. La mia lingua letteraria, a ben vedere, è una specie di parlato colto che racconta storie al passato, frutto di un sapere appreso a orecchio, capace di dar senso al mondo. È di quello che scrivo, o scrivevo, perché di quello so, o sapevo. Quel che conta, per me, è il tono, la prosodia che prende, che ti scalda il cuore. E se rievoco i racconti di quand’ero bambino è perché nel corso della vita certa magia non l’ho più trovata. Quel che pulsa in noi è il fascino delle prime esperienze, la parola dialettale che nomina la cosa, la fiaba più volte ripetuta. Nel mio caso, poi, sono i personaggi che mi vengono a cercare, sono le loro voci che si fanno vive, che mi sfidano a metterle su carta. È il personaggio che prende la parola, io sto in ascolto, e riproduco. Mi sa che non sono scrittore, ma trascrittore. La carta di identità scade nel 2026: ci proverò, chissà se si berranno questa nuova attribuzione.

In campeggio
A ben vedere, l’unica volta in cui mi sono sentito davvero scrittore è accaduto parecchi anni fa, e ben prima di pubblicare qualcosa. Ero all’incirca ventenne e, siccome in campeggio me ne stavo per mio conto senza dare spago, si era sparsa la voce che fossi un tipo profondo, uno che quando parla le parole escono in fila belle ordinate come i bambini allo scoccar dell’ora, sempre se la maestra è di stampo antico. In breve: uno scrittore. Bene: il pizzaiolo – che aveva una tresca amorosa complicata – proprio a me chiese di vergare una poesia per convincere la ragazza che lei era quella giusta, e soprattutto che lui aveva chiuso per sempre con le altre. E intanto che contava i suoi tormenti, mi sfornava pizze senza il conto, perché anche il poeta più ispirato accetta eccome le provviste. Io però prendevo tempo: consegnando l’ode, temevo che il pizzaiolo non gradisse la mia prova, o peggio di perdere la rendita. Il mattino della partenza, furtivamente, lasciai a suo nome un foglio scritto piccolino di cui ricordo poco, se non il sugo: tu sei la donna giusta, il mio cuore è stanco di marosi e di procelle, e giace pago nel lago del tuo amore. Roba parecchio scarsa, anzi meno. Eppure, quella volta qualcuno mi aveva convinto non solo che io fossi capace, ma che le parole possono ogni cosa. La certezza ingenua di quel pizzaiolo mi regalò il coraggio di scrivere. Non importa cosa, o come: scrissi convinto, scrissi davvero. Ecco, a me questa fiducia nel potere della lingua l’ha insegnata un pizzaiolo del Salento. Ogni tanto ci penso: chissà se ha funzionato tra quei due.


Questo mio saggio è uscito sul numero 7 di Just-Lit, gennaio 2023. Ringrazio Marco V. Burder per le preziose indicazioni e integrazioni.

Autori e testi citati in ordine di apparizione

Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo, minimum fax 2001
Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi 1979
Nicolás Gómez Dávila, Tra poche parole, Adelphi 2007
Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, nottetempo 2014
Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi 1987
Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus Novus, Einaudi 1976
Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, op. cit.
Karl Kraus, Nachts, in Roberto Calasso, La muraglia cinese (prefazione a Karl Kraus, Detti e contraddetti, Adelphi 1979)
Paul Valery, Quaderni I, Adelphi 1990
Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi 1990
Günter Grass, Il tamburo di latta, Feltrinelli 1962
Wolfgang Goethe, Poesia e verità, Einaudi 2018
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi 1981
Roland Barthes, Critica e verità, Einaudi 2002
Annie Dillard, Una vita a scrivere, Bompiani 2021

I miei romanzi
Il sorriso del conte, Oge, 2008
Esperia, Oge 2012
Lux, Giunti 2015
La cantante, Bolis 2017

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1 Commento

  • Ida Bamberga Premarini Posted 3 Marzo 2023 14:37

    Deliziosa argomentazione, semplicemente deliziosa per me, che seguo il Suo scrivere fin dagli inizi. Ho provato ancora oggi il medesimo godimento nel rileggere lo stupendo “Prologo” del Sorriso del Conte (anno di grazia 2008, mi pare), romanzo che apriva la strada a quelli successivi. Uno più avvincente dell’altro, del resto. Ecco, non avevo mai riflettuto sulla differenza tra “scrittore” e “narratore” e oggi ho ricevuto la preziosa illuminazione: «Il primo vive scrivendo, il secondo scrive vivendo». Tutto più chiaro, sia per catalogare le passate letture, sia per affrontare le prossime che accompagneranno le mie ore di relax. Come sempre, grazie!

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