Nella spelonca del sinemà

Non c’è due senza tre. Marco V. Burder qui si occupa del mio Lux. Non anticipo niente, se non che un commento critico così articolato non capita mica tutti i giorni.

I precursori del cinema, ovvero la Caverna de las manos a Santa Cruz, Argentina

Anche in questo secondo romanzo della trilogia orobica (e terzo della produzione dell’autore), lo specifico folclore linguistico si conferma con evidenza da autentico protagonista, a metà tra un parlato gergale e un ammicco indirizzato al dietro le quinte, ammicco che si serve con cadenza inesorabile dell’ironia di chi, avendole studiate, conosce le cose del mondo nella loro verità: ovvero, che dette cose sono imprevedibili e, per paradosso, son pertanto inconoscibili. Vale a dire: non controllabili dalla voce umana, forse nemmeno da quella del narratore (per quanto riguarda la corrente sentimentale che spinge tutto il racconto). La fotografia dei nonni è la caparra in anteprima di copertina che guida il testo e lo convoglia al finale, che ne è la semplice traduzione verbale. Dipendenza delle parole dalle immagini, soprattutto quando queste siano documenti tanto intimi da rasentare l’icona sacra delle proprie origini e il simbolo della propria sostanza emotiva. Anche in Lux vi sono degli ottimi figli dell’ironia, piccole esplosioni di senso ulteriore, di notazione antropologica, filosofica e persino teologica.

La guerra l’aveva imparata così, con la facile logica del prima e del poi”. (Psicologico).
Noi ci crediamo anche per quelli che fanno fatica”. (Teologico).
Quello era il periodo che i treni cominciavano ad arrivare in orario”. (Ironico-politico).
Così non perdiamo il filo per segno”. (Calembour, sgambetto verbale).
… si ritirò senza una voce, come un riccio sperduto tra i suoi chiodi”. (Favolistico-allegorico).
Esperia non se la sentiva di andarci [al camposanto], la nonna era meglio tenerla per sé che regalarla alla terra”. (Memoriale).
Nel primo Novecento il mondo era tutto a rovescio. O forse si è capovolto strada facendo, chi lo sa”. (“Verkehrte Welt”).
… la colpa va sempre divisa e condivisa: per fare una croce servono sempre due legni”. (Penitenziale).
Carlo Codega”. (Pedemontano e, tra gli altri, mia nonna).
Buonanotte ai suonatori”. (Come sopra).
Sentiva gli occhi precipitare in cielo, a momenti cascava giù per terra, come nel gioco più bello che c’è”. (Sublime cosmicomico).

Se lo confronto con EsperiaLux mi appare però un testo meno convinto: senz’altro più coinvolto emotivamente (ah, l’amour… e poi: il ricordo dei nonni, la dedica…), ma meno debitore del tipico gergo adottato, più indipendente per contenuto dal consueto “folclore linguistico” e dunque meno a suo agio in tale persistenza. Esperia è una storia comica di cialtroni, adeguati alla lingua che li canta. Lux è più intimo, meno buffonesco, più disponibile all’elegia che alla farsa. Si sente che in questo secondo della triade c’è una vertebra commossa, un ricordo che si costituisce a protagonista di affetti remoti che hanno preceduto e generato l’autore. Per concludere: Esperia (romanzo) ha un linguaggio che lo crea dall’interno, che lo sostiene come le centine dell’aerea vicenda; Lux sembra invece in procinto di sgusciar via, di tentare altre strade espressive, e per intanto rincara la dose di manierismi e di ticchi verbali. Insieme, vi sono qui e là dei pregevoli neologismi (o termini rubati al dialetto): giocolio, per esempio. O ancora riferimenti de jadis, come l’anglicismo macadàm (che io ho appreso una trentina d’anni fa per la prima volta ascoltando Sparring partner di Paolo Conte). D’altronde tutto il testo è molto sorvegliato, nonostante l’apparente stracceria dell’eloquio quotidiano. Un testo che porta i protagonisti sempliciotti all’interno dell’illustre mito platonico della caverna, antenata del cinematografo, con la loro immersione nella stupefazione per le immagini mobili sul telo dello schermo, affrontando un percorso inverso a quello dell’uomo socratico che, sempre in Platone, sfugge al fascino delle ombre mobili per affrontare la verità accecante ma inabitabile del mondo esterno. Vero è che anche per i quattro della combriccola (i due fratelli Milesi, il fotografo Scotti e l’imprecisabile Curnis) la sosta nell’ambito del sinemà, nel fondo della moderna caverna, sarà fonte di delusione: un’esperienza da archiviare tra i loro molteplici malestri…  

Per finire, una sorpresa da me scoperta tardi, ossia a lettura inoltrata: ogni capitolo è intestato col titolo di un romanzo. Qui di seguito gli autori che sostituiscono il titolo stesso del capitolo affidato a ciascuno.
Bulgakov, Barthes, Bettini, Chiara, Weiss, Unamuno (suggerito dall’autore), Gadda, Saramago, Cappelli, Pirandello, Vitali, Maraini, Lodoli, Stendhal, Pederiali, Pontiggia, Yourcenar, Campanile, Doninelli, Bianchi, Meneghello, Camilleri, Tozzi, Brancati.
Anche il titolo, Lux, è citazione, ma al contrario: precede di quattro anni la pubblicazione dell’omonimo Lux di Eleonora Marangoni (Neri Pozza, 2019). Ma non potevano informarsi, prima di ricalcare il titolo di Calzana? Giunti non è una casa editrice marginale, insomma!


Tutto il senso e il sugo di Lux tra sinossi, recensioni e porzioni.

2 Commenti

  • Gabriele Zanchi Posted 19 Giugno 2022 10:00

    Trovo che i commenti di Marco Burder siano scritti in un italiano perfetto, indice di una cultura profonda e meditata, non appresa superficialmente o per insistenza. Dei romanzi in lettura riesce a cogliere pregi e limiti, senza fare, come fanno tutti ormai, il sunto della trama, o poco più. Io non ho letto tutti i suoi romanzi, ma sono a metà strada, ma Burder mi convince a completare il viaggio. Grazie.

    • Claudio Calzana Posted 19 Giugno 2022 10:09

      Sono io che ringrazio lei, signor Zanchi, per aver deciso di “completare il viaggio”. E il signor Burder, ovviamente, che l’ha spinta a tanto. A periplo concluso, mi faccia sapere che ne pensa dei miei romanzi, se le andrà.

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