Da Monteverdi al Pange Lingua

André Derain, Geneviève con la mela (1937-1938), olio su tela 92 x 73 cm
(Collezione Geneviève Taillade) © 2020, ProLitteris, Zurich

Poiché richiedi ai tuoi lettori un commento sull’omelia tenuta dal personaggio don Previtali in occasione del rito funebre dell’amico e protagonista conte Angelo Salani, in articulo mortis subridens, allora provo a corrisponderti per differenza sbilenca con il ricordo di un’autentica omelia, pronunciata una quindicina di anni fa in occasione della morte della sorella maggiore di mia madre. Era colei una donna nubile per vocazione e per auto costrizione dovuta ai morbosi ammonimenti paterni, che l’avevano fortemente terrorizzata fin dall’infanzia con una definitiva diffidenza nei confronti del sesso maschile. Nonostante la sua riconosciuta gradevolezza fisica (aveva occhi verde-celesti e i capelli ramati, era di alta statura, magra e slanciata, e da giovane anche formosa), non si era sposata e non aveva mai avuto fidanzati; forse neppure delle brevi relazioni ipotetiche e del tutto innocenti (ossia: incorporee). Rifuggiva da rapporti maschili e persino detestava parlarne, anche solo per scherzo. La ricordo soprattutto per una delle varie discussioni che ebbi con lei in gioventù: dopo aver lei deprecato la delinquenza violenta di quegli anni con un vibrato vendicativo nella voce, essendo io stupito da quella intemerata poiché ne conoscevo l’indole rigorosamente religiosa e caritatevole, le chiesi cosa avrebbe scelto in veste di giudice tra la giustizia e la misericordia. Mi rispose decisa, stringendo il pugno inoffensivo davanti a sé come per brandire una spada o uno scudiscio: la giustizia! —

Ti propongo questo preambolo per spiegare meglio l’impressione che un giovane sacerdote mi fece con la sua omelia funebre, in una chiesa di quartiere squallida come un garage, parlando di mia zia, che pure lui non aveva mai conosciuta di persona. Non ricordo i riferimenti biblici esibiti nell’occasione, che pure ci dovettero essere. Fui invece molto colpito dal cuore della sua argomentazione che, senza apparente necessità, sfoderò un’inconsueta prova dell’esistenza di dio, adattandola alla bisogna. Poiché mia zia era senza figli e dunque priva di discendenza diretta, il presbitero, però senza sfiorare tale sua condizione, affermò essere un’esigenza esistenziale e profondamente vitale per tutti quella di venire ricordati. Certo, i parenti stretti, e gli amici, e i conoscenti, per un po’ avrebbero mantenuto nei propri cuori il ricordo della defunta; ma quanto sarebbe durata, tale precaria memoria? I sopravvissuti di ogni defunto hanno a loro volta un tempo limitato di vita e dunque nessuno, che sia morto, può durare nel ricordo dei posteri se non per un troppo breve lasso di tempo. Poi: l’oblio, ovvero il nulla, come per non esserci mai stati. E questa circostanza del tutto ovvia, che pensata da un vivo mette scoramento e disperazione nella sua stessa volontà, tanto da rendere sciocco e futile ogni sforzo, ogni sacrificio, ogni impresa, e così via: ebbene, questa circostanza ha bisogno di un archivio immortale nel quale nulla venga dimenticato, dal filo d’erba fino al grande fondatore di popoli. Il peggio della morte, pensata da chi è vivo, non è tanto la cessazione di ogni piacere, di ogni godimento, di ogni forma di vitalità personale; il peggio risiede nell’idea che qualunque cosa si sia compiuta, qualunque impresa, qualsiasi azione commendevole: ebbene, tutto svanirà nel nulla, dimenticato già dopo la prima o, al massimo, dopo la seconda generazione successiva alla propria dipartita. Solo la memoria infinita del Padre, che tutto conosce e che tutto ricorda, può garantire il senso della vita umana, la quale, dislocata com’è tra passato corroso e speranza di futuro, non potrebbe sopportare che i propri ricordi e le proprie speranze siano l’effimero subbuglio di un istante, per spegnersi presto nel nulla totale. No, diceva il presbitero con fervore, ci dev’essere una Memoria che non cessa, un ricordo che diventa esperienza eterna e che si compenetra perciò nella beatitudine di chi, altrimenti, sarebbe vissuto invano. Ciò dimostra la necessità dell’esistenza di Dio affinché la vita umana sia davvero degna e dotata di significato; e quindi, concluse il presbitero, siamo tutti certi che questa nostra sorella sia fin d’ora sul palmo del Padre, giudice e memoria infinita di tutto ciò che è stato e che sarà. —

Dunque, da quell’omelia che voleva essere di conforto per i parenti di una defunta senza fama, senza eredi, e di corta prospettiva negli annali del futuro, ho ricavato forse per la prima volta la nitida coscienza di ciò che, tra l’altro, mi separa drasticamente dalla fede cristiana: io non desidero un futuro sperato, che anche da vivo, ora, mi appare con i tratti dell’irrealtà e della assoluta casualità; ma ancor più non mi spiace esser dimenticato, anzi, credo che sia una sorta di aspirazione che mi conforta e che mi ripaga di tutte le insufficienze vissute, di tutte le colpe vere o presunte, di tutto il fallimento che da molti anni è diventato l’interprete principale del mio destino. Sparire, non lasciar traccia né di eredi né di ricordi, come per non esserci mai stati, come per non aver mai inquinato, calpestato, devastato, infastidito, disturbato. Solo nell’oblio si viene davvero perdonati, mentre nell’eterna memoria del Padre (e sia pure di un Padre di misericordia, più che di giustizia) si sarebbe per sempre inchiodati al male perpetrato e al bene non compiuto, in un’eterna luce d’infamia o di mediocrità. —

Ecco, questo è il mio commento all’omelia che ti sei inventato e che, invece, si basa soprattutto sul futuro, sulla speranza: il conte Angelo Salani aveva “a cuore il futuro”. E se, come sostiene don Previtali, “una vita ideale è quella che tiene la morte presso di sé, che comprende quanto siamo fragili, umani appunto. E una morte ideale è quella che si pone in sintonia con la vita”, ecco se questa è l’auspicabile comunità dei vivi e dei morti, a me pare (come al protagonista del racconto I morti di James Joyce) che siano questi ultimi a prevalere, a contare di più e a richiederci di dimenticarli per poter sopravvivere al loro lutto immedicabile. D’altronde, si è mai sentito dire questo, che c’è un oblio di tutto l’essere come per averlo tutto ritrovato? (Hölderlin, Iperione). Oppure, in quest’altra variante: che quel che davvero conta è ciò che si dimentica? (Furio Jesi, Materiali mitologici). E che tutto quanto importa, per dare significato alla nostra esistenza, sarebbe dunque ciò che abbiamo dimenticato e che non ritorna più col proprio formato d’un tempo nel fantasma dell’oggi? Si può essere d’accordo con queste opinioni? – Sì, vi si può consentire, e si può approvare che la forma con cui riemergono le cose importanti sia proprio il loro oblio, ma solo se intendiamo quest’ultimo come la spontaneità con cui sono stati assimilati i nostri trascorsi per venire vissuti giorno per giorno, piuttosto che rimembrati con struggente inanità o con l’abitudine cerimoniale propria delle commemorazioni d’ufficio. Diventare citazioni inconsapevoli di tutto ciò che ci ha toccato profondamente nella nostra vita, e manifestarlo nel gesto quotidiano, che è il nostro, qui, ma insieme è quello di coloro che ci hanno un tempo influenzati ed educati: eccoli, ora tutti insieme, provengono dall’invisibile e dalla morte in cui sono riposti, si adagiano sulla nostra mano, si doppiano nella nostra voce e ci tolgono ogni scoramento di solitudine, ogni desolazione di abbandono, giacché essi sono tutti ancora presenti, incorporati in ciò che intanto noi diciamo di essere e di desiderare, in ciò che operiamo nella nostra attualità. In tal caso, noi siamo eredi senza rimpianti di una vasta tradizione: eredi del lascito tramandato da quei ricordi che più non si ricordano, perché ormai si vivono. E ogni giorno allora è un simbolo compiuto in se stesso.

Concludo queste mie strampalate divagazioni ricordando che alla fine dell’omelia per mia zia fu intonato il Tantum ergo, che ricordavo dagli anni d’infanzia soprattutto per la ripresa del canto, quando si intonava “Genitori genitoque”, espressione che allora non comprendevo e che per la rima con “procedenti ab utroque” mi dava un’incomprensibile felicità acustica, tanto da cantarla a tutta voce durante le funzioni, e anche quando andavo in bicicletta per conto mio nel quartiere, come fosse il mio canto di primavera.


L’invisibile secondo Marco V. Burder.

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