L’orizzonte mobile di Daniele Del Giudice

Eccoli. Sono i quattro libri di Daniele Del Giudice che ospito nella mia libreria. Tutti recano in copertina l’immagine di un mezzo di trasporto, nota era la passione per il volo dello scrittore scomparso oggi a 72 anni. L’aeroplano di Elsie Driggs illustra Lo stadio di Wimbledon (1983), libro che mi fece ritrovare la figura di Bazlen da una diversa angolatura, meno agiografica. Una strana macchina volante introduce a In questa luce (2013), trent’anni esatti più tardi; in mezzo compaiono Atlante occidentale (1985), con un locomotore elettrico della Märklin, mentre Staccando l’ombra da terra (1994) esibisce un aliante. Noto che sono tutte prime edizioni, segno che Del Giudice lo seguivo con fiducia. Eppure, qualche suo libro manca, a riprova della mia naturale diffidenza per le collezioni complete.

Bazlen

La questione della rappresentazione della realtà era centrale nella narrativa di Del Giudice, nel segno della scrittura esatta praticata da Calvino. Potremmo definire Del Giudice un de|scrittore, peraltro ragionevolmente appartato. La nostra cultura, scriveva, «è eminentemente visiva, e di conseguenza metafisica». Con tutti i rovelli del caso, certo: «Scrivere e difficile. Si è soli, dopo le chiacchiere, le discussioni, gli incontri, le letture. Si è soli. Fa fatica e fa paura» (In questa luce, 28). Fatica e paura ben chiare nel testo vergato da Italo Calvino per la quarta di copertina de Lo stadio di Wimbledon: il giovane scrittore «cercherà di rappresentare le persone e le cose sulla pagina, non perché l’opera conta più della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, in un’appassionata relazione col mondo delle cose, potrà definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè se stesso». E nel farlo, Del Giudice inaugurava nuovi approcci alla rappresentazione, un nuovo sistema di coordinate, come la carta di Mercatore, guarda caso quella che governa i voli; consapevole che il suo tempo, che poi è il nostro, è irrimediabilmente diverso da quello che l’ha preceduto: «Mi sembra che “in quella particolare epoca” tutto doveva essere molto importante, e cruciale. Cioè molto sentimentale. È come se ci fosse una grande distanza. Ho pensato: “Ora è diverso; più solido e sobrio, con una complicatezza più leggera. Tutto è leggermente più verso i margini”». (Lo stadio di Wimbledon, 61) Ecco il punto: il mondo è slittato, anzi continua a farlo, e noi a ruota, come dervisci in cerca di spina dorsale. Da un punto di vista schiettamente narrativo, questo perenne slittamento non facilita la presa, semmai complica la resa. La parola ne soffre, lo sforzo logora. L’esattezza è una forma nobile di resistenza: siamo in territorio araldico.

In ascolto

Un anziano scrittore che ambisce al Nobel e un giovane fisico del Cern sono i protagonisti di Atlante occidentale. Entrambi hanno la passione del volo e, dopo aver rischiato la collisione, si sentono chiamati al dialogo. Verificano le rispettive identità e posizioni, sia pur senza uno straccio di Castorp a parteggiare. Dice Epstein, lo scrittore: «Guardando si vede solo lo sfondo, pensando si pensa solo la figura. Mai le due cose assieme […] Tutta la mia vita, tutto il mio lavoro non è stato altro che raccordare le persone agli oggetti, e gli oggetti all’esperienza e ai sentimenti, alla percezione di sé, alle idee. Forse quello che ho inventato fin qui non è altro che una lente speciale, che permette di vedere lo sfondo e la figura nella loro relazione, in pari dignità. Lei da ragazzo sarà stato portato per la matematica, o per le scienze. Io ero portato per le persone. Me ne intendevo per istinto, come un animale. Scrissi un Atlante delle andature, la prima cosa che ho scritto, lo usavo come gli altri usavano quello di geografia» (57-58). Brahe, il giovane scienziato, durante un volo viene invitato dallo scrittore a presentare il suo esperimento al Cern senza fare analogie con qualcosa di precedentemente noto: «Ciò di cui lei parla non assomiglia ad alcunché, lo sa benissimo. Io voglio che questa differenza si senta. Non capisce? […] Perché ogni cosa che dice manda avanti un gemello, che io già conosco, impedendomi di farmi un’idea dell’altro? Non abbia paura di disorientarmi, dato che ciò di cui lei parla è in effetti del tutto fuori dal mio orientamento. La prego, ricominci da capo» (104-105). E così Brahe «… per la prima volta parlò a Epstein di ogni cosa chiamando ogni cosa con il proprio nome, la propria sigla, la propria formula; non faceva neanche tanti gesti, staccava appena la mano dal volantino, ogni tanto, ma più per porgere che per illustrare, come se mandasse su da un sottomondo dimensioni e concetti e movimenti e stati e direzioni che nascevano da una perfetta costruzione matematica, elastica e stupefatta, e valevano solo lì; ma già parlare di su e di giù, di dentro e di fuori, era del tutto improprio, e ogni tanto Brahe si correggeva, si riprendeva, e controllando con un’occhiata Epstein si accorgeva che più restava fedele a sé e più gli sembrava che lui sapesse già, o capisse perfettamente. Epstein ascoltando si sporse verso Brahe, e Brahe parlando si sporse verso Epstein, ed erano così raccolti uno verso l’altro, e del resto il rumore del motore era così continuo e avvolgente, come l’aria, che nessuno, dietro di loro, avrebbe potuto sentire nulla» (105). Solo se ciascuno resta nel suo campo, senza trasgredire il limite, è possibile una comunicazione autentica. I saperi possono entrare in relazione solo rispettando il proprio statuto epistemologico, il lessico, la semantica originaria. Ma nello stesso tempo, ciascun esperto deve avere il coraggio di sporgersi oltre il suo sapere, deve saper restare in ascolto. Gli specialismi hanno senso, e misura, solo quando si avvicinano l’un l’altro, sfidando il disorientamento che ne deriva. Non è un caso che Del Giudice immagini questa civiltà all’interno di una carlinga nel cielo sopra Ginevra.

Il dio errore

Volare è immagine potente dello scrivere. Non è tanto questione di salire in quota, e rimirare beatamente di lassù; semmai è faccenda di quota d’errore, il «dio errore» (Staccando l’ombra da terra, 4) che ci governa e guida. Errore che, in volo, è l’inevitabile condizione di chi si trova d’improvviso privo di riferimento alcuno. «Al di là dei vetri la nebbia sembrò animarsi in forme dense, veloci, fumose; ti ci volle un po’ per capire che non erano rocce o alberi o corpi imminenti di un inevitabile impatto ma movimenti e volumi vuoti della massa umida; ti sporgesti verso il cruscotto, guardavi inutilmente in alto sperando che la luminescenza del sole diluisse quel chiarore viscoso, invece a mano a mano che salivi l’opaco si scuriva, più cupo, più grigio; anche il beccheggio dell’aereo aumentava, aumentò il rollio, ci furono improvvisi colpi d’aria dal basso e risucchi dall’alto, imbardate di lato; queste mettevano l’aereo di traverso senza piegarlo in virata, facendolo ruotare di piatto su un immaginario perno verticale che lo trafiggesse dall’alto, come un pesciolino in una banderuola: tu davi subito piede, non appena sentivi l’inspessirsi del rumore dell’elica che mordeva l’aria con una diversa incidenza, davi subito piede per recuperare l’assetto. Avevi capito dov’eri? Fuori dalla nebbia, certo, ma non nell’aperto del cielo; dalla nebbia, senza che apparisse un filo d’azzurro, eri entrato direttamente nelle nubi, eri in una nuvola, un cumulo a giudicare dal grigio livido come una contusione, e dalla turbolenza che scuoteva l’aereo» (69-70). Il sapiente sdoppiamento tra l’io che scrive e il tu che vive l’esperienza contagia il lettore.

Il punto di rugiada

Scrivere è perdersi tra nebbia e nubi, facciamolo sapere una volta per tutte agli amanti del bello stile. Piccole ruote folli che abbandonano il terreno, ali che sfidano la nebbia e le nubi, quando «l’aria si raffredda fino al punto di rugiada» (70), e non riesci nemmeno a immaginare dove finisce quel cielo in cui sei perso, disperatamente solo, altro che torre di controllo, ma quali radar, persino qualche strumento di bordo fa cilecca e ti manca anche il conforto visivo. Qui non ci sono istruzioni per l’uso, manuali a prova di errore, parole di conforto, uscite di sicurezza, soffici paracadute. Viene in mente l’istruttore di volo: «Bruno era un maestro che non spiega […]. L’idea della manovra, in Bruno, coincideva con una disciplina e un rigore assoluti, ma a lui interessava l’intuito, una manovra correttamente eseguita non era ancora nulla, il minimo presentabile, non te lo diceva naturalmente, ma si capiva che era così, volare era tutt’altro che una manovra ben fatta. Lui non spiegava, si comportava come se tu sapessi già, e quello che non sapevi, cioè tutto, dovevi ricavarlo dal silenzio delle sue occhiate, dalle sue facce, dal suo modo di riprenderti nelle manovre con cenni rapidi e senza sonoro indicando col dito uno strumento o l’orizzonte fuori o un riferimento invisibile nel cielo, questo per lui era imparare. Meno che mai ti avrebbe annunciato quando fosse arrivato per te il momento di volare da solo» (4-5). Il volo, come la vita, non si può ridurre a una sequenza ordinata di passaggi. Si può imparare a volare, e a vivere, ma solo per imitazione, con coraggio e dedizione. La medesima intenzione vale anche per chi scrive: «Lui sapeva che non avrebbe più potuto accucciarsi tra le parole con un animale nella tana» (Atlante occidentale, 81).

Icaro e il labirinto

Ricordo il paio di volte che gli parlai al telefono, in vista di una possibile conferenza. La prima volta mi rispose con la voce gioiosa, mentre pagava la spesa alla cassa di un supermercato; la seconda spuntò un tono già più meditabondo, come lontano. Di lì a poco Daniele Del Giudice si sarebbe perso nella malattia. Come il pilota nella nebbia, e poi nube, e cumulo, con l’aereo che non risponde ai comandi, la radio ti abbandona, il sopra si confonde con il sotto, si è fatto buio, che ti fai bastare come luce.  Viene il sospetto che Del Giudice abbia voluto rimirare dall’alto il labirinto delle umane faccende, scontando la pena di Icaro in un precipizio senza fine. Ma dove aggrapparsi, allora? Alle sue parole, come sempre esatte come una leva: «Io credo che l’etica di uno scrittore è nel suo essere scrittore, cioè nel compiere etologicamente la natura della specie animale a cui appartiene. Noi ci distinguiamo dagli altri animali non perché possediamo il linguaggio, che anche gli altri animali possiedono, ma per la nostra consapevolezza del linguaggio, per la nostra operatività sul linguaggio e la capacità di riflettere sulla sua natura. Venire alle parole, essere con gli altri attraverso la narrazione o la poesia, significa compiere fino in fondo la propria natura di animali parlanti, di animali portati naturalmente alla lingua» (In questa luce, 33).


Roberto Calasso su Bobi Bazlen.

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2 Commenti

  • Erika67 Posted 4 Settembre 2021 21:23

    Quello che ho apprezzato di Del Giudice è stato, oltre ai libri certo, il suo modo di essere letterato, evitando che la biografia inquinasse la sua opera. Era una persona tranquilla, senza fronzoli, badava al sodo, niente strampalate come accade agli autori di oggi. giusto il volo, che fece splendida metafora

  • Eugenio Riva Posted 3 Settembre 2021 11:51

    Ho molto apprezzato Atlante occidentale, il tema dello scrivere piuttosto che rinunciare. Il suo articolo mi è piaciuto molto, credo proprio che sia sempre più il tempo di leggere Daniele Del Giudice

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