Meditavo ieri in pausa pranzo sul mio post di qualche giorno fa, quella specie di raccontino autobiografico dedicato ai call center. Un tipico esempio di nonlavoro quello degli operatori dei call center, nonlavoro nel senso impiegato da Marc Augé quando parla dei nonluoghi, ovvero i terminal degli aeroporti piuttosto che i centri commerciali. Spazi identici in tutto il mondo, privi di una identità propria. Un altro nonluogo, intriso di umanissima deiezione, sono i bagni degli autogrill, dove operano quelle particolari figure degli addetti alla pulizia che non a caso, credo, Roberto Mussapi ha cantato ne “La grotta azzurra”: nonlavori praticati in nonluoghi, nonlavori perché privi di una qualsivoglia specializzazione, ma non per questo meno faticosi, o veri. Anzi verissimi, perché la realtà di oggi passa proprio da quelle parti, e lo dice uno che ha scritto un romanzo ambientato nel passato proprio perché il presente non lo sa digerire e tanto meno raccontare.
Ci riesce invece benissimo Roan Johnson, italianissimo a dispetto del nome, nel suo “Prove di felicità a Roma est”, edito da Einaudi Stile Libero, romanzo che ha vinto il Premio Berto opera prima. Un libro che fila via che è un piacere, prova matura di un esordiente che ti scodella uno scenario urbano inevitabilmente multietnico con gli occhi di chi vive in provincia e si trova a percorrere la città eterna in sella a un vespino carico di pizze da consegnare. Lorenzo, il protagonista, si paga gli studi facendo il pony-pizza, altro esempio di nonlavoro dei nostri tempi, molto più complesso di quel che potrebbe apparire in superficie. Oltre alla narrazione che non ti molla un attimo, alle divagazioni sapienti, alle chiuse felici, una cosa mi ha colpito di questo libro: la lingua. Da un lato, la scrittura “veloce” e sincopata, il pressappoco giovanile, le manie, il “quasi” tipico di chi come il protagonista a 21 anni mica se la prende troppo seria. Dall’altro, il precipitare di alcune espressioni colte, che il protagonista incrocia a scuola piuttosto che nelle lezioni raccattate a Roma da un professore in pensione e in cerca di redenzione. Ora, questi due registri non comunicano tra loro, non vengono a una neanche per sbaglio. Una volta avrei pensato a una sbavatura, a una riprova del “quasi”, mi sarei detto: “Roan, ritenta sarai più fortunato”. No, invece sta proprio qui sta il punto felice, il kairòs: questi due registri non si intendono perché la scuola vira di qua e la vita, gli amori, gli amici e soprattutto il vespino vanno da tutt’altra parte. Ogni tanto però accade che un termine (è il caso della parallasse evocata dal professore) aiuti il protagonista a comprendere qualche scheggia di quel che gli sta intorno. Dura un istante, poi la vita riprende la corsa di prima e la scuola resta al palo, altrove, con il suo fardello di parole. Morale, tutto da leggere questo romanzo di Johnson, da catalogare come una delle prime espressioni compiute della letteratura italiana del nuovo secolo.
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