
[29] Tutti i paesi che ho visitato di recente hanno perlomeno una strada intitolata al sisma. A Teora, ad esempio, si trovano via Caduti 23 Novembre e via Volontari 23 Novembre. A Sant’Angelo dei Lombardi si accede al paese da via 23 Novembre, costeggiando il cimitero. Mi scopro turbato per questa memoria scolpita ovunque, e ribadita tra monumenti e targhe di edifici e chiese. Immagino chi abita in una di queste vie: la carta d’identità ti ricorda per sempre quel che sarebbe bello riuscire a dimenticare. Anche i bambini che nulla hanno vissuto, innocenti nel ricordo, innocenti nel dolore. A Sant’Angelo, seduto al bar di piazza de Sanctis, ordino caffè e brioche. Francesco De Sanctis era irpino di Morra, grande studioso di letteratura italiana e primo Ministro dell’Istruzione dell’Italia unita. Me ne arriva solo mezza di brioche, quelle intere sono finite. Mica lo sapevo che qui ci si può contentare di una mezza dose. Lo prendo per un segno: con le tue domande cerchi una risposta intera, mi dico, e qui invece al massimo te ne tocca un assaggio. Della brioche mi contento, della risposta no. Provo a ragionare: il terremoto – qualunque terremoto – non si può ridurre ai danni della scossa. No, il terremoto nasce prima, sotto forma di edifici mal costruiti e di progettazioni sbagliate, per non dire criminali; e continua dopo, perché il disastro mica te lo scrolli di dosso come la polvere, chi lucra sui morti raramente incappa in una condanna e la ricostruzione illude con il suo codazzo di magnifiche sorti e progressive. Dimenticare quel che è accaduto non significa soltanto scordare morti e rovine, ma di fatto anche assolvere i colpevoli. E qui l’esigenza di giustizia, sacrosanta, si scontra con quella di andare avanti, di ricominciare a sorridere, di vivere meglio. Perché il ricordo di un disastro che hai vissuto in prima persona è intransitivo: rende difficili scelte e azioni, ti fa marciare sul posto, impedisce di pensare al futuro. E allora ecco un primo guadagno: coltivare la memoria è una richiesta, disperata e necessaria, di giustizia; richiesta che nonostante il dolore spinge i superstiti a «far rivivere il passato nel presente», come scrive Todorov in Memoria del male, tentazione del bene (Garzanti 2001). In nome del popolo ferito, questi monumenti e vie sembrano dire: «Ce lo prendiamo in carico noi questo dolore, ma a un patto: che non accada mai più».
Già, ma proprio questo è il problema, o perlomeno uno dei tanti: il ricordo ossessivo, la persistenza nei sogni, la continua rammemorazione nei racconti condivisi; o, se preferite, l’impossibilità di dimenticare quei terribili secondi, quando ogni cosa perdeva di senso e di luogo, e il mondo di prima andava definitivamente perduto. Il fatto è che ricordare la scossa, custodirla nella memoria, significa tenere sempre aperta la possibilità che si ripeta. E non è solo una questione di memoria: a Teora, e non solo lì, sono ancora presenti i prefabbricati del tempo. Certo, negli anni sono stati rafforzati, il legno irrobustito dal cemento alla base, l’uso è in prevalenza turistico. Alcuni sono abitati da persone non in grado di permettersi soluzioni migliori. Mi stupisco al pensiero che alcuni di questi edifici precari ho contribuito a costruirli con le mie mani: mi chiedo se abbia senso tenerli in piedi, lasciare che vengano ancora abitati, a perenne ricordo di un’incertezza che dura da decenni. Nel suo memoriale, Gabriele Tardio scriveva: «Il ritorno a una vita “normale” è stato un processo molto lento ed ha richiesto lunghi anni trascorsi in una condizione di permanente provvisorietà, numerose famiglie hanno cresciuto i propri figli nei container con le pareti rivestite da amianto». (Sisma 1980). Recentemente il sindaco Chirico ha fatto sapere che parte dei prefabbricati verrà demolita per far posto a nuove costruzioni. Anche Teora ha fame di suolo, ovvero di contributi per rimpinguare le magre casse municipali. Chissà, magari aveva più senso raderli al suolo tutti, mi dico, perché altrimenti si rischia quel che profetizzava Georg Lichtenberg 250 anni fa: «E le rovine artificiali cominciarono a divenire a poco a poco rovine naturali. Rovine di secondo grado». Funziona proprio così: quando il provvisorio si fa definitivo, l’occhio si adegua a qualunque abuso e stortura. Eppure sentivo che per capire fino in fondo questa faccenda mi mancava qualcosa. Ci ha pensato Lucia Russomanno a regalarmi il punto di vista migliore. A Caposele, mentre il giorno declinava e un vento tagliente annunciava l’autunno, Lucia ha raccontato il “suo” terremoto. Ci conoscevamo da una settimana, e mai prima di quella sera aveva fatto cenno a quei giorni lontani: le vicende che ti segnano nel profondo hanno bisogno di tempo – e di rispetto – per vedere la luce. Men che meno aveva detto qualcosa del prefabbricato che ancora campeggia accanto a casa sua. Lei e la sua famiglia lo hanno abitato per dieci lunghi anni, il tempo infinito della ricostruzione. Lì è nato uno dei suoi figli. Ecco la ragione, semplice e chiara: quella costruzione in legno, oggi deposito degli attrezzi, reca in dote un periodo non solo crudele e doloroso, ma anche prezioso e bello. Di un disastro non si trattiene solo il dolore, ma anche la gioia, per poca che sia. Altrimenti la speranza sarebbe parola vuota, travestimento, fata morgana. Demolire quella piccola casa significherebbe abolire una parte di memoria. O meglio, chissà: una parte di vita.
La trentesima puntata, La mezza casa. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
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