La mezza casa

[30] Settembre 2022, Sant’Angelo dei Lombardi. Un anziano se ne sta per conto suo, accanto a un Apecar parcheggiato in bilico sul marciapiede. Non richiama l’attenzione dei passanti, che peraltro scorrono in prevalenza sull’altro lato della strada, men che meno fa segno alle auto che sfilano per la via. No, fa l’opposto dei venditori che decantano la merce e gridano ai quattro venti quant’è buono questo e saporito quello. Di taglia minima, vestito alla buona, un cappello a velare gli occhi, l’uomo se ne sta appartato senza uno sguardo al panorama che si staglia a perdifiato oltre il muretto. Poggia sul bastone, curvo e assorto, il mento nelle mani, gli occhi bassi. In toscano si direbbe: ristà. Ecco, a me quell’anziano ha ricordato l’Irpinia intera, una terra che devi proprio volerci andare, mica ci inciampi durante un viaggio illustre, e allora magari ti fermi incuriosito, e scopri scorci e popoli inauditi. Una terra che non proclama quant’è bella, non si mette in ghingheri per turisti e avventori, non sgomita per ricevere attenzione. È popolata da gente che non se la tira e nemmeno perde il controllo, se non di rado; gente generosa, talvolta severa, che al bisogno ti misura con lo sguardo. Non giudica: semmai semplicemente tace. Ho traversato la via per vedere che vendeva quel vecchio silenzioso: peperoncini sottili e verdi, ne aveva una caterva nel vagone. Ne ho chiesti un po’, giusto un assaggio gli ho detto, e l’accento mi ha svelato forestiero. Con fare misurato e lento, l’uomo ha stipato più manciate in un sacchetto. Le sue uniche parole sono state: «Un euro», e io ero già pronto con una banconota. Gli ho lasciato una moneta da due, così ci sta un caffè, gli ho detto. Ma lui era tornato nella posizione di prima, lo sguardo perso tra le mani. Mi son chiesto se ho fatto bene, magari l’ho offeso con quella propina elementare. Una volta a Bergamo, i peperoncini di Sant’Angelo hanno rallegrato pietanze e sapori. In quel gusto fiero ho trovato traccia di una terra che poco vende e molto dona, un frammento d’anima, un’appartenenza schietta. Da quelle parti il cibo piccante è una prova iniziatica: se lo gusti senza lagnarti passi l’esame. Mi sa che certi osti si divertono a provocare lo straniero, e caricano di brutto le pietanze. Il sorriso malizioso con cui ti allungano il piatto è più che un indizio, a momenti è prova.

Un brano de Il paese dei Coppoloni Vinicio Capossela narra di un’anziana che decide di restare al paese proprio perché, tra scossa e Contributo, nulla è rimasto al proprio posto. Una scelta che profuma di monito e di emblema.
«Tra quelle case abbandonate, una resisteva in piedi, come tagliata a metà. Il crollo aveva diviso il suo ordine quotidiano. Da una parte le mura sbrecciate e il dirupo, dall’altra la casa intatta, le mura domestiche offerte alla vista. Nell’angolo interno, seduta accanto alla fornacella accesa, stava una vecchia.
Davanti alla sedia sulla quale sedeva composta, il pavimento, i muri e il mobilio proseguivano per qualche metro, poi si affacciavano sull’abisso. Pareva il segno di una zampata mannara.
La vecchia resisteva immobile nella parte inviolata. Non c’era stato un modo di farla sgombrare. Se n’era rimasta lì, al suo posto, e a dispetto era diventata di cera.
“Ero qui a questo fuoco, quando è tremata la terra l’ultima volta, – diceva – e qui ho voluto restare, dove mi aveva piantata la vita. Sono restata al mio posto, che altro non ne avevo nel cuore. Non ho voluto espiantare.
Era una bella domenica di sole, di un caldo fuori stagione. Verso le sette e mezzo è tremato. Ci sono state fiamme, rumore, vento. La terra sbatteva a strattoni, violenta. Afferrava dai piedi. Pigliava i cristiani a uno a uno dal petto. Scuoteva le ossa, minacciava, buttava via a forza. Tremò la terra come se non potesse più sopportare ancora, ma nessun Cristo era morto sul Golgota, solo i cristiani che finivano sotto le loro stesse case. Tutto era diventato spaesato. Uomini, animali, diavoli e spiriti, ci precipitavano addosso. I pavimenti si sollevavano in aria, le pareti piegavano, il mondo crollava. Quello che ci aveva fino ad allora protetto, ora ci seppelliva. L’ordine si rovesciava.
Le case che avevamo costruito con sacrificio ci seppellivano vivi. La morte non ci volle subito. Ci venne a prendere chi sotto una porta, chi sotto uno stipite, chi sotto una scala… venne così la morte, in forma domestica, casa per casa.
Si disfece il monte. Si aprì la frana. Si spaccò la vena. Si spezzò la spina dorsale alla terra, e la terra sgranò, precipitò a falde, assieme alla pioggia. Niente rimase più al posto suo. Era una fine del mondo, e un mondo finì.
Ora hanno tolto gli argini ai fiumi, agli alberi le radici. Sono arrivate case senz’anima, e senza cristiani che ci abitino dentro. Col Contributo subito le hanno alzate, e subito quelli che le hanno alzate se ne sono andati. Niente è rimasto al suo posto, ma io qui rimango, nella mia casa divisa a metà. Una per quel che si è presa la frana, una per quel che ho preso alla vita”.
Così disse e restò».


Jammucenne, la trentunesima puntata. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.

1 Commento

  • Pasquale Posted 23 Aprile 2023 16:21

    Immagine potente quella della mezza casa. E anche la caparbietà di alcuni irpini, che non vogliono saperne di emigrare. Invece molti di noi hanno già perso speranza, la rassegnazione prevale. Anche per questo sto apprezzando il suo memoriale, che non fa sconti e racconta la nostra gente per come è davvero.

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