Cimiteri

Un viale del cimitero di Teora.

[17] Lo scorso settembre, il mio primo giorno a Teora dopo 42 anni, ho voluto visitare il cimitero. È distante dall’abitato, al termine di via Gasparetto, in una zona isolata e tranquilla. Tra novembre e dicembre 1980, il camposanto era luogo di sepolture provvisorie e fosse comuni, andirivieni continuo di camion con le bare, fatica di ruspe, pellegrinaggio di parenti affranti, freddo maligno che si sommava al dolore. Il 12 settembre 2022, nel sole di una splendida giornata di tarda estate, il cimitero mostrava invece il suo profilo migliore. Finalmente silenzio, finalmente pace, soltanto Paolo e io a percorrerne i viali, a carezzare con lo sguardo le tombe. All’inizio abbiamo camminato per gli stessi sentieri, ma poi ci siamo divisi, ciascuno a dar retta al proprio percorso interiore. A Teora i defunti del terremoto non hanno uno spazio comune; certo, per forza di cose la data fatale avvicina molti di loro, con lapidi che ripetono a martello quel 23 novembre 1980. Teora perse 157 persone sui circa 2700 abitanti del tempo. Rispetto all’epidemia che in questi ultimi anni ha sconvolto tutti noi – e in particolare Bergamo, la mia terra – la differenza è presto detta: i superstiti della sciagura irpina sono stati scagliati ben prima del tempo in quell’età della vita in cui conosciamo più morti che vivi. In simili circostanze il tempo accelera svelto e si invecchia di colpo, con il cuore stanco e canuto. Qui da noi, invece, la morte è stata selettiva e maligna, chiamando a sé soprattutto migliaia di anziani. I superstiti si sono ritrovati d’un tratto in quell’età della vita che te la devi giocare da solo. Il tempo si è come fermato, eppure anche noi siamo invecchiati di colpo, con il cuore confuso e smarrito.

Grazie all’architetto Franco Renna, teorese, il paese è stato riprogettato con cura. Corso Plebiscito è un piccolo gioiello, con affaccio di case curate e gentili. Lo ricorda Franco Arminio nel suo Viaggio nel cratere (Sironi editore), che però segnala anche qualcos’altro: «Poi, improvvisamente, compaiono case che sembrano grandi scatole di cartone, come se Renna avesse voluto regalare al suo paese le forme che aveva ammirato nei libri dei suoi studi. Spesso gli architetti vanno dietro alle linee di cui si sono invaghiti». Sono parallelepipedi di cemento, gli elementi strutturali a vista, i segni del tempo evidenti. Da vicino, si intuisce che questi condomini sono in prevalenza disabitati. Presumo siano stati progettati nella speranza di un futuro ripopolamento di Teora, che invece continua inesorabilmente a perdere abitanti, come l’intera Irpinia peraltro. Sui cancelli d’ingresso spiccano campanelli cui raramente corrisponde una famiglia, nomi privi di voci, stanze in attesa di ospiti che mai vi metteranno piede. I pochi abitanti hanno “personalizzato” questi edifici con estrose derivazioni elettriche, verande e innesti volti a mitigare il formalismo dell’edificio. Detta semplice, questi condomini “steccano” con il paese. Non a caso i teoresi proprio così li chiamano, stecche. In questa zona il silenzio non regala pace, semmai suggerisce abbandono. «Il non-finito era […] la cifra stilistica della ricostruzione», scrive l’architetto Cesare De Seta nel suo romanzo Terremoti (Colonnese 2002). Il rischio è quello che certi interventi edilizi subiscano il medesimo destino dei paesi dimenticati dopo il terremoto e ricostruiti altrove. La penna di Giorgio Manganelli – che si riferisce a Pozzuoli – coglie la questione con sapiente sarcasmo: «Un rione umile e intensamente meridionale, che ora se ne sta con le sue case vuote e morte, cariche di nomi e cognomi ormai putativi, come un epitaffio bizzarramente cromatizzato. Forse il rione è un rudere sperimentale, l’invenzione di un Centro Progettazione Ruderi che, cercassimo pazientemente in tutti gli uffici nazionali, finiremmo per ritrovare accanto ad un probabile Reparto Catastrofi». D’altronde è risaputo che, degli oltre 60mila miliardi di lire stanziati dai governi di allora, poco meno di un quarto sono andati a buon fine. Del resto dei soldi si sono perse le tracce. O meglio: in un territorio a prevalente vocazione agricola e artigianale, migliaia di miliardi furono impiegati per avviare aziende che spesso chiudevano dopo aver ricevuto i soldi, lasciando a casa la manodopera. Il dopo terremoto è tutto intriso del Contributo, come lo chiama Capossela, che ha sancito la tripla sconfitta segnalata da Galadini: «L’abbandono al loro destino di fabbricati storici danneggiati; l’occupazione scriteriata delle campagne con massicci interventi a scopo residenziale o produttivo; per quest’ultimo aspetto, il fallimento della svolta economica e sociale» (Tracce ondulanti di terremoto, Edizioni Kirke). Ecco, le stecche sono forse il secondo cimitero di Teora: il primo ospita chi ci ha lasciato il 23 novembre 1980, il secondo attende chi mai tornerà a popolare questa terra tormentata e bella.

Teora, corso Plebiscito. Una delle stecche citate da Arminio.

Il giorno delle ruspe, la diciottesima puntata.

Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.

5 Commenti

  • Eros Barone Posted 29 Gennaio 2023 20:03

    Questa teicoscopia di una necropoli, pervasa da un’aura apocalittica e un po’ tanatofila, mi ha fatto tornare in mente un aforisma stomatonico che i tempi calamitosi e osceni confermano fin troppo: la vita è un cimitero travestito da carnevale.

    • Claudio Calzana Posted 29 Gennaio 2023 21:06

      Sui tempi siamo d’accordo, Eros, sui rimedi chi lo sa. Nel Marat-Sade di Weiss c’è una frase che suona più o meno così: «Prima di parlare del bene e del male è opportuno conoscersi». Mi sa che in qualche modo ci riguarda.

      • Eros Barone Posted 29 Gennaio 2023 23:07

        Se si volge lo sguardo dagli eventi più atroci della storia mondiale, come lo sterminio degli ebrei e il rogo atomico di Hiroshima e Nagasaki, ai fatti della cronaca nera italiana, non mancano davvero le evidenze che sembrano attestare non solo la potenza, ma anche (e questo è forse l’aspetto più in-quietante) la banalità del male. Perciò, seguendo le orme di quei dotti dell’età moderna, come Pierre Bayle, insigne pioniere della critica biblica, o di quei pensatori, come Voltaire nel periodo illuministico, Stuart Mill in quello positivistico e, in età novecentesca, il nostro Piero Martinetti, i quali, di fronte allo spettacolo angoscioso e ‘perturbante’ del male fisico e morale, hanno manifestato una forte propensione verso la dottrina del manicheismo, si sarebbe tentati, per dare al male un fondamento razionale e giustificarne l’esistenza sottraendolo alla sfera terribile dell’assurdo, di concepirlo come una realtà metafisica, ossia un’entità autonoma, e non, secondo quanto afferma la dottrina cristiana, come ‘defectus boni’, ossia assenza di bene: concezione, questa, che sembra rivelare, da parte della Chiesa e del cristianesimo, una sorta di riluttanza e quasi di paura a comprendere il significato e la portata del male. Bisogna, allora, riconoscere che vi è un aspetto del Male, che non è stato mai abbastanza approfondito e sul quale converrebbe iniziare una riflessione matura: esso è quello espresso da Mefistofele nel “Faust” di Goethe (1808), quando questo dèmone si definisce «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene». E, dal canto suo, Hegel, il più grande dialettico dell’età moderna, non ha forse affermato che «la storia avanza dal lato cattivo» e che «la schiavitù è la culla della libertà»?
        Se non si vuole, pertanto, accettare, a causa della sua radicalità e durezza, l’indicazione di Bertolt Brecht, secondo la quale «bontà oggi significa distruggere coloro che impediscono la bontà», sarà almeno lecito considerare con la dovuta serietà l’analisi e la proposta, in apparenza meno dure ma altrettanto radicali, di Lars von Trier, il regista di “Dogville”, che alla poetica dell’estraneazione, al teatro didattico e al pensiero marxista di Brecht si richiama esplicitamente: «Bene e male sono dentro di noi e sono le circostanze a fare uscire allo scoperto o l’uno o l’altro. Credo allora che dobbiamo lavorare sulle circostanze.»

      • Claudio Calzana Posted 30 Gennaio 2023 10:39

        Splendida la citazione da von Trier, definitiva. Pensandoci, il male forse è un travestimento arguto del bene, una sua variante soggettiva. Ne va dell’intenzione, del dominio e della brama. Alla fin fine: è il progresso materiale, che si perde per strada quello morale e umano.

  • Carlo Scognamiglio Posted 16 Gennaio 2023 12:11

    Questo parallelo tra cimitero dei morti e cimitero dei vivi è toccante e anche istruttivo. Vale più di un’analisi sociologica con tante cifre e riflessioni. Grazie per questi ricordi, tracciano una storia d’Italia molto particolare e riuscita.

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