
(Fotografia di Tano D’Amico)
[13] Fin dai primi giorni uno dei miei impegni era quello di “andare a macerie”, come si usava dire tra noi volontari. Erano gli stessi abitanti che chiedevano aiuto per rintracciare qualche ricordo tra i resti delle proprie case. Andava così: provvisti di guanti e stivali, si saliva in bilico su un qualche cumulo di detriti, senza troppo badare ai muri ancora in piedi, che minacciosamente ti stavano intorno, pronti a franarti addosso alla prima scossa severa. Sotto le scarpe ricordo il lamento delle pietre minute, il rantolo cupo di quelle maggiori; ricordo l’equilibrio precario, come per mare quando l’onda si leva. Vengono alla mente i versi che Salvatore Quasimodo dedica al padre novantenne, superstite del terremoto di Messina del 1908:
Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato.
Scavando, capitavano alle mani resti di ogni tipo. Ricordo ancora l’emozione che provai nel trovare un album con fotografie di bambini, compleanni, feste comandate. Lo sventolavo manco fosse un trofeo, e via in cerca dei legittimi proprietari, che mi accolsero tra lacrime e abbracci. Era il segno che qualcosa aveva resistito alla furia del sisma, che il legame con il passato non era spezzato. In un’altra occasione trovai alcune fotografie incorniciate, graffiate dal vetro in frantumi; scovai persino dei barattoli di conserva e marmellata miracolosamente intatti. Li aveva fatti la nonna. Lei, purtroppo, non ce l’aveva fatta.
Dove la morte si prende la scena, e con essa il dolore, altrettanto si rivela la vita, e con essa l’amore. Magari è difficile da comprendere, e persino da accettare, ma in quei giorni di freddo e di lutti nacquero diverse storie d’amore. Alcune destinate a durare, ricordo un paio di matrimoni figli di quei giorni; altre di sesso e furtive, giusto una notte veloce. Erano avventure al sapore di nepente, la bevanda che a detta dei Greci liberava dal dolore e regalava l’oblio. In altri casi, decisamente la maggioranza, tra teoresi e volontari prevaleva un sentimento nobile e bello, frutto di fraterna condivisione. Per descrivere questa emozione, prendo a prestito un aforisma di Guido Ceronetti: «I corpi li unisce il piacere, le anime la pena». Ricordo Lucia, una bella ragazza di Teora: il terremoto le aveva lasciato in dote una ferita interiore, ogni scossa di assestamento la faceva tremare, e le scosse erano quotidiane, anche decine al giorno. Era combattuta tra la voglia di tornare a casa sua, ancora parzialmente in piedi, per recuperare qualche vestito e ricordo, e la prudenza, che le consigliava di stare alla larga. Un giorno mi chiese di accompagnarla, e io lo feci con l’incoscienza dei miei vent’anni. Le scale erano a vista, parte del muro perimetrale era crollato. Significava salire dei gradini con vista cielo, passo dopo passo, tra scricchiolii e avvisaglie di rovina. Ecco, arrivati più o meno a metà della rampa, ci sorprende una scossa secca, maligna. Lei grida e scappa di corsa per le scale. La trovai di sotto che piangeva, io ero sceso più lentamente, con cautela. Ci fu un abbraccio, lungo, eterno. Forse altrove sarebbe stato amore.

Fagioli, la quattordicesima puntata.
Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
1 Commento
Che giorni quelli evocati dallo scritto! Al dolore fa da contrappuntò la solidarietà, che non ha mai paura di rischiare.
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