Pietre minute

Questa volta Augusto Sciacca mi ha sorpreso. Lo conosco da anni, seguo e apprezzo la sua carriera di artista, eppure solo da poco ho scoperto che è anche poeta. A pensarci bene, non ci trovo nulla di strano. Certo, con Pietre minute. Poesie 2004-2020 (Velar Editore 2022) Sciacca inaugura una nuova modalità espressiva, ma non muta affatto la sua poetica, anzi la rinsalda e affina. Ricordo la presentazione del volume, a fine aprile. Tanta gente in sala, sul palco voci importanti a commentare, Augusto parecchio emozionato, come accade quando sveli una porzione di te che il pudore si ostina a trattenere. Sfogliavo il libro a caso, soffermandomi su questo o quel verso: così di primo acchito spiccava una vena antica e generosa, ricca di memorie e voci, sorretta e motivata da un vaglio persino crudele. Chissà quante poesie non sono state ammesse, mi dicevo.

Radice comune
Nel volume, prezioso per confezione e cura, le poesie di Sciacca s’alternano ai dipinti, per via della «radice comune di figurazione e scrittura», come ben scrive Giuseppe Fornari nel saggio introduttivo. Le due forme espressive derivano da una medesima sorgente, una sorta di image en disponibilité, come diceva Henry James a proposito della genesi dei suoi romanzi. Poi, certo, quanto alla forma, ciascun genere artistico procede per la sua via: le poesie mi ricordano ciottoli accomodati con cura a ritrovar la via di casa, là dove tutto ha avuto inizio, quando le parole e le cose si tenevano per mano: «Queste piccole | candide pietre | i miei doni | da bambino | alle persone care. | così era l’augurio | per il buon anno». (La strina); i dipinti, invece, hanno il sapore di stazioni provvisorie, luoghi in cui riposare un attimo per poi interrogare nuovamente il cielo, là dove il destino ci conduce, e trema: «La mia strenna | oggi | è un segno | su un foglio bianco | ripiegato | pensando | a quegli sguardi lontani | dove l’utopia si tuffa | e a quei sassi | che nel segreto | pulsano ancora» (La strina).

Orizzontale
Leggo i versi, me li mastico per bene, e talvolta mi soffermo sulle illustrazioni. Mi convinco che la poetica di Sciacca sia percorsa da due motivi, rigorosi e chiari. Il primo è di natura orizzontale: riguarda l’Uomo, i suoi quotidiani affanni, le gioie benedette e le fatiche oscure, il lavoro e il sudore, la terra da accudire con le mani, la vita tra sorprese e invocazioni, le piccole certezze, i dettagli e colori che l’occhio trattiene e la parola rende. I versi sono di minimo taglio, senza il morso della punteggiatura, parole scandite come pietre sistemate a protezione dei campi, e del lavoro, o sovrapposte «fra le strette scalinate | giocate al risparmio | dei muri a secco». (Italia anni Cinquanta – I). il poeta conosce bene questo mondo orizzontale, o per meglio dire lo sanno le sue mani. «Le mie mani | sanno | quanto è bassa la terra | hanno raccolto | olive e limoni | portato cesti | di pietre minute | per riempire i muri a secco | e strappare un po’ di terra | alle ripide | avare colline: | nastri, strette terrazze | come gradini | di irte scalinate | che dal mare portano al cielo» (Le mani sanno). Se si fermasse a queste immagini perdute – i ricordi son quel che hai o quel che hai perduto? – quello di Sciacca risulterebbe un ordinario nóstos fine a sé stesso, un inno alla Sicilia perduta, al tempo che fu, ovvero un lamento per la sua condizione di esule. No, in questo stigma orizzontale il monito del poeta è chiaro: se l’uomo non comprende appieno questa sua condizione, ignorando la fatica che ci piega, se si limita a rimpiangere l’antico, o peggio indugia con gli occhi fissi a terra senza prevedere il cielo: ecco, l’esito allora è certamente nefasto, farsa e tragedia si fanno tutt’uno, l’innocenza viene umiliata e offesa senza motivo, il mondo diventa appannaggio di quei furbi dalle «parole mai del tutto chiare», «Il circo della storia | è più feroce | delle bestie innocenti | che saltano | nel cerchio di fuoco» (Il circo), «Il demonio | non fa più patti | con Faust» (Baccarat), e «Il diluvio | avrà | di che lavare». In un tempo siffatto, conclude amaramente Sciacca, «non c’è più niente | che vale | la pena» (L’ombra del Dio selvaggio – Agli artisti suicidi).

Campagna siciliana, muro a secco

Verticale
Dalla postura orizzontale, curva sulla terra, giacché in essa siamo conficcati e vivi, Sciacca prende le mosse per disegnare un personalissimo afflato verticale, una vocazione al cielo, a quel che ci abita e trascende. «Arianna ha perso | il gomitolo. | Ci vogliono grandi ali | per uscire. | Ma Francesco | con ai piedi | le umili scarpe | di sempre | crede» (Crogiolo). Ai sandali, che percorrono la terra a sfinimento, corrispondono ali che donano slancio e convinzione, che schiudono universi in forma d’abisso; sono gli infiniti mondi di Giordano Bruno, figura che non a caso troviamo nella poesia d’apertura, Campo dei Fiori. «Più in là | sull’alto piedistallo |dove il rogo arse | Giordano Bruno rammemora | De l’infinito universo e mondi». Questo appello al cielo percorre l’intera opera dell’artista, poetica e figurativa: è un’interrogazione, certo, ma insieme confidenza in un tempo possibile e migliore. «Ho alzato gli occhi | per scorgere | l’indefinito abisso, | l’immensa | architettura mi è apparsa: | come su mappa | senza confini | una miriade | di luci colorate | a comporre gli universi» (L’immensa architettura). Non si pensi a un prima, (ambientato in Sicilia, e rimpianto) che litiga con un poi (ambientato a Bergamo, e sofferto), a una patria e all’esule che l’ha perduta: no, in Sciacca, nei suoi versi migliori, tutto si tiene: «Ho imparato | a fare muri, | muri a secco | e senza filo a piombo. | Muri | non per separare | ma per scalare | le colline | fino al cielo» (Pietre minute). Semmai, al culmine del suo incedere, nel segno di un necessario ricongiungimento, l’artista volge la mano al piccolo caruso che «nelle notti estive | gli occhi attenti | che si abituano | al buio» afferrava i profumi, le voci e le stelle. Il presente destino richiama la sua indefettibile origine, la peculiare vocazione che ogni nuovo giorno ci regala. «Fui giovane e ora vecchio», recita il Salmo 37, senza dimenticare il monito di von Hofmannsthal, che per interposta figura si augura di «morire riconciliato con la propria infanzia» (Andrea o i ricongiunti). Il lavoro degli uomini, insomma, dischiude il cielo, non lo interrompe o nega: «Quegli uomini | chini sulla terra | hanno calli sulle mani | ma ammirati guardano | lassù, | di giorno sudano e imprecano | ma stanotte |qualcuno pensa a Dio | e si interroga» (Italia anni Cinquanta – I). Parola poetica e cosmo pittorico si tengono, l’una è l’altro: il quanto dipende dallo sguardo e la misura. Entrambi si ergono a sutura di ferite antiche, epifanie feroci di cui il piccolo Sciacca è stato involontario testimone (la violenza alla giovane Carmela, l’uccisione di un gattino). È il precipizio dell’uomo contemporaneo, che gratuitamente arreca dolore ai propri simili. Qui Sciacca potrebbe far sue le parole di Annie Dillard, quando ammonisce: «La crudeltà è mistero, come lo spreco di dolore».

Nomade e appartato
Il punctum della poetica di Sciacca rifulge là dove gli assi cartesiani si fanno croce e, in chiave d’infinito, il tempo si contrae, passa la mano: «Raccolgo parole | come da fanciullo | olive | lo sguardo attento | a terra | e il pensiero | uno sparviero in cielo» (Raccolgo parole). L’istanza orizzontale dell’uomo, nella forma mediata del tempo, incontra la vocazione verticale al cielo, nella forma dialettica della negazione. Nella sua dismisura, il cielo – ovvero il cosmo, gli infiniti mondi – dissolve ogni provvisoria identità e frammento di vita: la Sicilia delle origini, lontana e ormai corrosa dal tempo, e la Bergamo del presente, cifra di un mondo fitto di compromessi e finzioni. Privo di sostegno e di vincastro, il poeta, l’artista Sciacca si ritrova nomade e appartato, ben lo descrive Giuseppe Fornari nella prefazione. Da questo luogo remoto prende la parola, da qui condanna quanto lo circonda e affligge: nelle poesie più antiche s’avverte la pubblica invettiva per la sofferenza di cui l’artista è testimone; le composizioni recenti sono più intime, raccolte, la vibrazione emotiva è tutta interna, non richiede la condanna esplicita, gridata. Mi figuro il poeta che con coraggio decide di mantenere in silloge composizioni diverse tra loro, figlie di epoche lontane, a far memoria del percorso compiuto, assumendosi il rischio di mescidare intenzioni e toni.

Augusto Sciacca, Lo stretto

Mistero
Con accenti che richiamano Eraclito e Leopardi, il poeta campisce un cosmo denso di opposti, indifferente e numinoso, che sfida concetti e persuasioni: «Gli assi cartesiani | non bastano | per le innumerevoli frequenze | acustiche | magnetiche | visive | che pervadono | senza scampo | il pensiero» (Accade). La scienza, che tutto divide et impera, ha certo le migliori intenzioni, e guarda caso protegge e rassicura; ma nulla raggiunge davvero se non sa andar oltre le certezze, se non vive la parola in sintonia con ciò che crea il mondo e lo rivela: «Il mondo è Verbo | non finito limite | e unico pensiero. | Il cosmo intero | un teorema | un solo essere | nel suo accadere | come una parola» (Raccolgo parole). Una volta «Spezzato l’azzurro sigillo dell’accadere | la storia non ha più corso | né gli assi cartesiani un verso | lo spazio è un divenire | di buio, di colori e luce» (La luce, il buio). Viene in mente Paul Klee, quando diceva che il pittore non adegua i colori al mondo, semmai adegua sé stesso al colore. Grazie a questa rivoluzione in interiore homine l’artista può ravvisare il tempo che si arrende al continuum, la lava sotto la crosta, la sofferenza che si cela in ogni forma di sviluppo e vita: «Feconda è la cesura | come il seme | nella terra bagnata | bisogna recidere il tronco | i robusti rami | dar posto | alla marza | nella fenditura | soccorrere le due parti | stringendo forte i legacci | per saldare l’innesto, | sulla ferita | pece bollente era un tempo | nei giorni dell’infanzia | così nel porgersi | aprirsi a rinnovata vita» (L’innesto). Come scriveva Hölderlin, proprio «là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva»; un monito che in Sciacca origina una sensibilità profonda, unico possibile argine all’inutile violenza dell’uomo. A non aver timore della parola esatta, la si potrebbe chiamare tenerezza. In questo rischio di vivere, ammonisce l’artista, chi si ritenga pienamente umano deve saper riscoprire il necessario, in segno di sobrietà; benedire i doni e gli incontri che la vita ci regala, in segno di gratitudine; indovinare la luce nel mistero, in segno di fede: «Col tempo | sai che ogni nido | ha una ragione| ed è un dono, | ogni siepe | ogni dosso | ha un fine | e che in fondo | anche il limite | il mistero | non nega un suo chiarore» (Col tempo).


A proposito di poesia: Pasolini, finalmente.

1 Commento

  • Gian Gabriele Posted 7 Agosto 2022 17:02

    Le poesie citate nell’articolo suggeriscono una rara sensibilità. È bello che un artista trovi molteplici forme espressive, per meglio chiarire assunti e motivi

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