In fondo al cuore di un gesuita

California, anno del Signore 1786. Nei pressi di Monterey ha luogo l’incontro tra due personaggi assai diversi tra loro. Da un lato l’andaluso Renzo Braçes – voce narrante, cultore della fisiognomica, cerusico e barbiere avvezzo al sotterfugio – relegato in quei luoghi per aver coniato monete false. Dall’altro un fiero gesuita italiano, Padre Giardelli, risoluto scrutatore dell’animo umano, a sua volta esule per via della recente soppressione della Compagnia di Gesù. Nel lungo memoriale, lo spagnolo riferisce a una misteriosa Eccellenza le sue indagini intorno al gesuita, con l’obiettivo di far luce sulla morte violenta di un conte italiano. In fondo al cuore, Eccellenza di Maurizio Bettini (Einaudi 2001) è una lettura sorprendente per svariate e solidissime ragioni: felice nella scrittura e avvincente nella trama, è un romanzo che si legge d’un fiato, un giallo denso di riferimenti colti e nello stesso tempo in grado di appassionare anche il lettore meno smaliziato. Il che potrebbe pure stupire, in fondo si tratta del primo romanzo di un autore che al secolo risulta filologo classico all’università di Siena (oltre che di Berkeley). Parrebbe immediata l’associazione con Il nome della rosa, visto che anche in questo caso abbiamo un romanzo giallo in salsa ecclesiale, un mistero condito da dotte citazioni. No, troppo facile. Meglio provare a fare i filologi, e ricordare che la parola detective deriva dal latino detegere, il contrario di coprire. In effetti filologi sono a loro modo dei detective, indagano con scrupolo e pazienza lontane lingue e civiltà. Ci vuole passione, ci vuole pazienza. Lo ricorda un insigne dissidente della categoria, Friedrich Nietzsche: «Filologia… è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento».

Simulare e dissimulare
Braçes, tozzo cerusico che del corpo e delle sue ragioni si fa voce – la fisiognomica per l’appunto; e Giardelli, elegante gesuita che sta dalla parte dell’anima, del segreto, del mistero. Il primo è maestro nel simulare quelle buone maniere che certo non gli appartengono; il secondo risulta insuperabile nell’arte della dissimulazione, sulla linea di Baldasar Gracián e Torquato Accetto. Sul piano terreno, la dissimulazione culmina nell’ambizione di esercitare il potere attraverso la rinuncia, la distanza, come appunto si propone la Chiesa di Roma. Il potere vero è quello non esibito, nascosto. Non cerca gloria o possesso, semmai alberga in interiore homine. È imitazione di Dio, il quale si dissimula, si cela, non si mostra mai. È discreto. L’agire del gesuita italiano ricorda le parole di Accetto, secondo cui «è di grande intelligenza che si dia a vedere di non vedere quando più si vede». Quella praticata da Giardelli è una disciplina raffinata, capace di leggere in profondità il tracciato delle emozioni, di captare le infinite risonanze dell’animo umano. «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce», diceva Pascal. E proprio grazie al cuore, Padre Giardelli è abilissimo nel sintonizzarsi con le attese e le disposizioni dei popoli incontrati. Attraverso la loro storia, la cultura, ma anche le loro fiabe, i sogni: come Matteo Ricci in Cina, come nelle riduzioni gesuitiche in Paraguay, di cui parla con entusiasmo un altro filologo di razza, Ludovico Antonio Muratori. Simile al radar altimetrico degli aerei, la ragione di Giardelli sa adattarsi immediatamente ai diversi rilievi del suolo, alle diverse emergenze della vita. Ben altra cosa la ragione degli illuministi, che tutto vorrebbe ridurre a propria immagine, volgere tutto ottimisticamente a simmetria.

Poesia e scienza
Poesia, fiaba, cuore da un lato; scienza, ragione, indifferenza dall’altra. Una diversa concezione del mondo e della vita che al termine del romanzo si palesa attraverso il racconto di un’eclissi: indagata in termini razionali da un esploratore in visita alla missione di Monterey proprio per osservare il fenomeno; e proposta da Giardelli agli indigeni con le parole della poesia e del mito. Con l’eclissi, si perde traccia dei protagonisti, le navi della spedizione scientifica non fanno ritorno, i documenti compromettenti scompariranno, gli intrighi internazionali non avranno corso. La storia si rinserra sulle vicende narrate, ritorna nel grembo di quel nulla da cui il filologo l’aveva per un momento dissepolta, o meglio immaginata. L’intera trama è allora caleidoscopica finzione, né potrebbe essere altrimenti visto che a narrarla è un falsario. Proprio come dopo l’eclissi, ecco che il sole torna a splendere e tutto pare scorrere come prima. No, non è così: questo «nulla» è pur qualcosa. Come ci ricorda Archiloco: «Non c’è nulla di inaspettato, di impossibile o di incredibile, dopo che Zeus, padre degli Olimpi, in pieno giorno fece notte, oscurando la luce del sole splendente, e un brivido di terrore percorse gli uomini». Già, dopo un’eclissi tutto è possibile: allora forse il monito di questo romanzo storico così particolare riguarda non tanto il passato, quanto il nostro presente, il nostro futuro. Forse il segreto che giace in fondo al cuore è per Bettini la speranza: quella speranza che, in ordine alle cose della vita, agli uomini, al potere, qualcosa possa essere diverso, nuovo, ulteriore. La speranza, ovvero una passione che non si può simulare. Una passione che – soprattutto di questi tempi – sarebbe bello imparare a non dissimulare.


Forse è il caso di dare una bella ripassata all’arte di disporre i libri.

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