Un libro in vetta

Che Petrarca non fosse proprio a suo agio nell’affrontare le salite lo si comprende anche dal dipinto di Philippe Jacques van Bree (1786-1871), Laura e Petrarca alla Fontana di Vaucluse (part.) © gettyimages

C’è chi per andare in montagna usa le gambe, e se la suda tutta, come si conviene; e chi invece sgrana gli occhi dal comodo rifugio di un salotto, sfogliando fotografie d’autore, oppure navigando per la rete. Sbagliato catalogare veri amici della montagna quelli che la percorrono a piedi, e semplici conoscenti quelli che si contentano delle immagini. No, ciascuno vive le cime a modo proprio: parafrasando Aristotele, montagna si può dire in molti modi. Hegel, per dire, ci aveva anche provato con le Alpi Bernesi nell’agosto del 1796. L’esito, a dirla tutta, fu deludente: un mal di piedi insopportabile, le montagne che alla fin fine hanno poco da dire al filosofo, al tempo semplice precettore: «Nel pensiero della durata di questi monti, o in quella sorta di sublimità che si ascrive loro, la ragione non trova nulla che le imponga necessariamente stupore e ammirazione, La vista di queste masse eternamente morte non mi ispirò nulla se non il commento uniforme, a lungo andare noioso: “È così”». Soltanto le cascate smuovono i precordi del filosofo, a riprova di un pensiero dialettico radicato, sia pure in nuce: «Finché non si scorge una potenza o una forza grandiosa, il pensiero rimane esente dalla costrizione, distolto dalla necessità della natura, e il vivente, ciò che sempre si dissolve e sprilla per ogni dove non contratto in una sola massa, ciò che eternamente si muove agisce, produce piuttosto l’immagine di un libero giuoco» (G.W.F. Hegel, Viaggio nelle Alpi Bernesi, a cura di Gian Antonio De Toni, Lubrina Editore 1990).

Ma c’è anche un altro modo di percorrere i monti: pochi fin che si vuole, ma ci sono anche quelli che arrivano a suon di gambe sulla cima, e lì, invece di tergere il sudore o di farsi uno spuntino, si regalano un bel libro. Poco attenti al panorama, ai colori del cielo, alle presenze animali, ai profumi diffusi. A loro basta un libro per celebrare l’ascensione. Gesto esemplare, snobismo, sprezzatura? Spiegazione semplicistica, anche perché il capostipite di questa tendenza fu nientemeno il Petrarca, che in cima al monte Ventoso apre Le confessioni di Sant’Agostino. Montagna di poco conto, d’accordo, ma libro di vaglia. Ora, ve lo immaginate il poeta che conquista la cima col rantolo del sedentario, e appena arrivato – in luogo di un panino – si tuffa nei ricordi del Santo? Ogni tanto, infila il dito a mo’ di indice, si guarda intorno, e poi di nuovo caccia gli occhi nel volume. Leggendo, Petrarca interrompe il mondo che gli sta intorno, in qualche modo stacca la spina, si rifugia in interiore homine. In questo aprire un libro sulla cima c’è qualcosa di più, per tacere dell’intenzione di farlo sapere ai posteri: i poeti non sono gente che fa le cose a caso, e nemmeno ricorda così per ricordare. In quel gesto possiamo scorgere una sublime parentela: il poeta elegge a dimora il suo mondo interiore a scapito di quel che fuori ci circonda e vive. Il libro è rifugio per il poeta, e lo rende noto proprio dalla cima del monte che lo accoglie. Un bel po’ di anni dopo, Clemente Rebora richiama questa affinità: «Tutta è mia casa la montagna, e sponda | al desiderio il cielo azzurro porge».


Non a caso molti poeti preferiscono il mare.

Aggiungi Commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *