Non dico baci e abbracci, ci mancherebbe altro, ma almeno qualche signora stretta di mano: è quel che molti di noi sognano di poter fare non appena sarà possibile. Magari strette belle energiche e virili, eredi della romana (e guardinga) dextrarum iunctio, con la mano a scorrere sull’avambraccio dell’altro per verificare che non avesse armi infilate nelle maniche. In attesa del DPCM che riabiliterà la nobile stretta, ci dovremo contentare di odiosi succedanei, come il darsi di gomito; oppure rispolverar l’inchino, pratica che io prediligo proprio per la patina d’antan che lo rende a molti magari buffo e fuori moda. Per colpa del Verri, l’Alessandro intendo. Il quale, diciamolo subito, era un fior fior di illuminista padano, tra i fondatori – insieme al fratello Pietro e al sodale Beccaria – di una signora rivista titolata «Il Caffè» (1764-1766), grazie alla quale aveva dato impulso al rinnovamento di leggi e costumi; già, ma bisogna pur ricordare che proprio lui, il Verri Alessandro, se l’era presa con inchini e riverenze, pratiche certamente ataviche e feudali, ma pur sempre rispettose dell’igiene e profilassi. Sentite qua: «Considerisi il corpo umano come una linea perpendicolare all’orizzonte, questa linea la chiamo felicità; considerisi l’uomo disteso a terra parallelo all’orizzonte, questa linea la chiamo miseria; l’angolo che fanno queste due linee è appunto di gradi novanta, cioè angolo retto; ora tutte le riverenze possibili io farò vedere come siano comprese fra questi due termini; e proporrò la soluzione della natura delle società e degli uomini derivata dal grado dell’angolo a cui sono abituati». Ora, se la felicità umana è inversamente proporzionale al grado di inclinazione del soggetto, e la miseria coincide con l’angolo piatto (appunto), star ritti di fronte all’interlocutore è la premessa inevitabile della stretta di mano, per tacer di baci abbracci e altre effusioni. Tra l’altro, ricordava il filosofo, ogni società e Paese ha la sua «tavola esattissima de’ diversi angoli che fansi nel salutare sotto diversi gradi di latitudine». Come a dire: poca o nulla inclinazione, ed ecco l’Europa, democratica e alla mano (appunto anche qui); massima pendenza, fino allo sdraio, ed eccoci sudditi di califfi e sultani, per non dire dittatori, giusto per stare all’attualità. Aggiungeva profeticamente: «Le prime riverenze, scostandosi appena dalla perpendicolare, si chiamano riverenze di “protezione”, quando son fatte da pochi, e riverenze di “sicurezza”, quando son fatte da molti: sono elleno accompagnate da un sorriso o da uno “schiavo”, se son rare, e da un “buon giorno, amico”, se sono comuni». Schiavo, o meglio “Schiavo vostro”, è l’antesignano del nostro comunissimo ciao. Insomma, Verri ha demolito l’inchino e noi oggi ci troviamo schiavi (sempre più appunto) di baci abbracci e strette di mano, roba che, se ti sottrai, passi per ipocondriaco e feudale. Abolito dalle nostre parti, l’inchino è pur sempre praticato altrove. In Giappone, ad esempio, dove si distinguono ben tre tipi di ossequio: con inclinazione di 15 gradi per i saluti casuali, ad esempio quando si incontra qualcuno per strada, ma non si ha il tempo di fermarsi a contarla su; l’inchino più diffuso è a 30 gradi, usato in azienda, o nei negozi, o per ringraziare qualcuno; l’inchino formale e profondo si delinea con un angolo di 45 gradi e viene impiegato per le scuse formali, i favori più importanti, le persone più in vista. Le mani sono ovviamente congiunte, la distanza assicurata, di abbracci neanche l’ombra, baci figuriamoci. Non so voi, ma da tempi non sospetti io sono favorevole all’inchino. Ogni tanto mi studio gli angoli allo specchio.
Sempre a proposito di inchini, ma a soggetto sacro, prendendo spunto da due quadri, uno di Simone Peterzano e l’altro di Tiziano, analizzo la tavolozza di colori per il manto di Maria nella storia dell’arte.
Le immagini qui inserite le ho “incontrate” nel bel libro di Desmond Morris, In posa, Johan & Levi Editore
2 Commenti
A ogni periodo il suo saluto, l’inchino è tramontato con la società divisa in classi
Mi sa che l’inchino mi piace proprio perché è tramontato, caro Andrea.
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