Sempre caro mi fu quest’Infinito

caspar-david-friedrich-viandante-mare-nebbia 1818 Duecento anni di Infinito, e questo idillio leopardiano non smette mai di emozionarci. Duecento anni di ermo colle, siepe, interminati spazi e sovrumani silenzi. Duecento anni di poesia unica e magistrale. Che si può dire di nuovo a proposito di un capolavoro assoluto che nemmeno la più stanca consuetudine scolastica è riuscito a guastare? Nulla, probabilmente. Ma proviamo ugualmente a leggerlo come se fosse la prima volta, soffermandoci su ciascuna parola, sapendo che questa poesia è il frutto di infiniti – appunto – ripensamenti e correzioni. Leopardi infatti la pubblicò solo nel 1826, ben otto anni dopo la stesura, inserendola sempre in prima posizione nelle varie edizioni delle sue opere. La lasciò dunque risuonare a lungo tra la sua mente e il cuore, fino a quelle parole che paiono scolpite, eppur così leggere, e belle. Verso dopo verso, proviamo a tendere l’orecchio a questa metrica suadente e generosa.

Verso dopo verso
Prendiamo il «fu» del primo verso. Perché «fu»? il remoto fissa un momento preciso nel passato, mentre le vicende che durano nel tempo vengono di solito rese con l’imperfetto, o al limite con il passato prossimo. Il «fu» – non a caso accompagnato dal «sempre» che inaugura il canto – perpetua l’istante della rivelazione avvenuta sul monte Tabor. Prima di quel «fu», Leopardi aveva sperimentato l’infinito solo entro le mura di casa, nell’immensa biblioteca paterna. Imparando a memoria migliaia di pagine, quel giovane favoloso aveva appreso un universo ricco di mondi e di stelle, antiche parole e riflessioni, uomini sapienti ed eruditi, tenerezze e amori. In vetta all’«ermo colle», l’universo sconfinato prende finalmente vita. A occhi chiusi, il poeta «finge» quel che «questa siepe» «esclude». Finge, ovvero immagina, desidera, vagheggia quel che sta oltre. Lo svuota però di ogni antropica fattezza, non evoca nulla di concreto. Felicità, ricchezza, opere, clamori: no, per lui l’infinito non è questa o quella mira, non è un obiettivo tangibile e concreto. L’«ultimo orizzonte» in Leopardi perde ogni sensibile misura, acquistando le vaghe sembianze di «interminati spazi», «sovrumani silenzi» e «profondissima quiete». È indefinito, privo di centro e di confini. In questo e per questo corrisponde al desiderio, il «motore immobile» che da sempre motiva gli uomini. L’errore sta nel pensare di poter saziare il desiderio con oggetti, ricchezze, onori. Roba di poco conto, minuzia che trascorre e muore. Si badi bene, Leopardi non ha nulla contro il piacere, anzi, ma lo indica quale palliativo della sua – e nostra – costitutiva indigenza; il desiderio va semmai coltivato e custodito in sintonia con ciò che l’uomo ha in sé di simile e migliore: l’infinito universo interiore. Certo, a questo compito il cuore «si spaura», ma il poeta ha il coraggio necessario per ambire a simili vette. O profondità, se preferite.

L’infinito, gli infiniti
Stormiscono le fronde, il giovane ritorna al presente e lo specchia nell’infinito senza nome che ha appena sfiorato. Persino quel minimo alito di vento reca tracce di infinito nella ridda delle «morte stagioni», «nella presente | e viva, e il suon di lei». L’infinito potenziale del desiderio e quello attuale della storia umana – per tacere di quello che alberga nel nostro cuore – convergono finalmente in una «immensità» in cui il pensiero «s’annega»: non c’è perimetro che tenga, nessuna possibile porzione. Qui la ragione arranca e inutilmente s’affatica, solo l’immaginazione può tener testa a questa dismisura. E forse non è un caso se l’idillio conta quindici versi: uno in più del tradizionale sonetto, componimento che peraltro Leopardi non amava. Preferiva l’endecasillabo libero, ricco di varianti e di lezioni, così affine al proprio universo interiore.

La magia della parola
Avviato con «sempre», l’idillio si conclude con «mare»: siamo e saremo sempre per mare, ci dice Leopardi, sempre a rischio, sempre in cerca di ragioni e falsi miti. Il poeta si scopre naufrago e umanissimo viandante. Proprio come il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, dipinto nel medesimo 1818. Il poeta non sa che direzione prendere, nemmeno dove appuntare lo sguardo. Sa che è «dolce» lasciarsi alle spalle la convinzione di poter tutto comprendere e dominare; sa che dobbiamo ricercare quell’infinito – desiderio, sogno utopia – che ci rende veramente uomini e migliori. Anche per questo non ci stancheremo mai di questa meravigliosa poesia: obbliga a guardare in faccia il vero, per arido che sia, e non si ritrae, o peggio si rassegna; invita a ricercare l’infinito dentro di noi, con coraggio e dedizione; scandisce il verso con un metro suadente e raffinato. Ma forse il segreto ultimo sta nella magia di una voce pura, nel fascino della parola esatta. Parola che per Leopardi è sguardo interiore, ribellione, profumo d’altri mondi, miniera di conforto e dedizione. In una parola, per il genio di Recanati la parola è vita.


Se vi è piaciuto il pezzo, potete proseguire con Sette poeti in riva al mare.

3 Commenti

  • Paolo endrizzi Posted 22 Febbraio 2019 16:01

    Lo sguardo sull’infinito mare tra depressione e creatività, tra sguardo triste dell’adulto e stupore del bimbo.

  • Giuliana Posted 22 Febbraio 2019 12:48

    Leopardi? Un genio assoluto, poeta, filosofo, fustigatore dei costumi. Certe pagine su Roma vanno bene anche adesso….

  • Angelo Posted 22 Febbraio 2019 10:51

    E comunque l’Infinito lo capisci solo a kilometri di distanza dalla scuola, c’è poco da fare. Non so se è colpa che si è troppo giovani oppure sono gli insegnanti che non ce la fanno proprio, fatto sta che io della poesia di Leopardi avevo un ricordo sbiadito, anzi pure fastidioso. Ecco, il suo pezzo ha reso giustizia, adesso me la vado a rileggere tutta. Grazie.

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