Il romanzo, opera d’esordio dello scrittore bergamasco Claudio Calzana, nel suo impianto rimanda certamente alla tradizione della “fabula palliata”. Ora, sgomberiamo subito il campo dagli equivoci: che “fabula” non sta per roba da piccini e che, soprattutto, “palliata” nulla ha a che vedere con l’annoiarsi appunto a palla o con le palle tutte o nostre, giranti o pendenti che siano. Essa, la palliata, è, invece, l’antica commedia latina d’ambientazione ellenica (pallium è il nome dato dai Romani al nazionale indumento corto greco). La quale commedia, nel caso del libro in oggetto, direttamente da Roma futura caput mundi oggi si fa strada in quel di Bergamo.
Il racconto è imperniato sulle vicende della nobile stirpe dei Salani, conti. Tre generazioni che si succedono lungo il filo teso di guerre, imprese economiche, matrimoni e tante visite al bordello, a spezzare la proverbiale monotonia del raplaplà coniugale. Primaria appare la ricostruzione a posteriori dell’amicizia tra il Previtali don Luigi ancor vivente ed il di lui fratello d’elezione, ma subito defunto in apertura di romanzo, l’Angelo sorridente conte. Quest’ultimo gaudente in professioniste signorine. Il sacerdote invece, ma che lo dico a fare, affatto. L’autore, nello sviluppo narrativo, onora nel suo proprio originale stile i principali canoni della suddetta palliata. In ordine sparso: la beffa, la servitù ricompensata, l’equivoco, l’osceno magari sottinteso ed anche quello esplicito: il parlar sconcio, insomma, che a volte non si può proprio farne a meno. Infine, ed è una roba che davvero esiste mica uno scherzo, l’agnitio catartica: il riconoscimento risolutore, lo svelamento improvviso e finale.
Centrale inoltre è il ruolo del Bonifacio giardiniere, servus callidus. Furbo. Il quale è sì scaltro ma non nell’argomentare sciolto. Non importa. Giacché, ulteriormente topos (caratteristica) del genere letterario palliato , lo stesso Bonifacio è anche servus currens, ovvero è messaggero e foriero, a suo particolare e oscuro modo, di notizie che alimentano il dipanarsi della storia. Almeno così inizialmente sembra, poi chissà. Figura quindi, il giardiniere, che a molti appare indiscutibilmente come topica. Ecco, lo sapevo, che quando si dice topica i più si svagano, volendo subito intendere riferirsi non al topos bensì al genere del topo. Genere non tanto letterario, in questo caso, quanto piuttosto genere femminile. Quindi, a far uno più uno, sarebbe appunto la femmina del ratto a distoglier l’attenzione. O parimenti e forse più, la contestuale, topica a sua volta ed innominabile anatomica parte del genere femminile. Femminile sì, ma di umana specie: giusto, la topa.
Ed egualmente, nella lettura del romanzo, non ci si faccia troppo distrarre dal Calzana. Perché la sua Commedia, perfetta e assai spassosa, sta solo in superficie. In realtà lui sta scrivendo altro: un’Apologia ovvero un’orazione a difesa. Una serrata apologia dell’ “ossimoro”, in lettera “acuto” e “ottuso” contemporaneamente. E come nell’ossimoro gli opposti vanno a braccetto stretto così è per il don Luigi prete e l’Angelo conte, novelli Narciso e Boccadoro: opposti ma mai avversi, complementari, a giustificare ciascuno l’esistere dell’altro differente e a dare al tutto un senso, che altrimenti, se soli, il senso mancherebbe.
E qui sta la speciale alchimia del romanzo: l’ossimoro ovvero il particolare e audace “testacoda” che è nel racconto rito sacro ed insieme profano rituale. Gli opposti che si incontrano e si riconoscono a vicenda, si toccano. Vita e morte, virtù e vizio, gioia e dolore, sorriso e lacrime, amore e prestazione a pagamento e così via, a perdersi nel cercare di capire cosa può dare – come dice Vasco – un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha. Ed il lettore finisce così per scoprirsi, con il libro aperto in mano, a domandarsi delle vicende umane e della Provvidenza e quale sia in realtà la forza che muove il mondo. O se, altrimenti, la vita sia unicamente questione della sorte che tocca a ciascuno, o di quella fortuna che s’invoca di ritrovarsi con quel tanto che basta di bel culo o se sia solo il fatto, invero e viceversa, di averci come la Manola signorina, il culo bello che basta. Bello, signori, come una rosa.
In conclusione, da ultima ma prima, la scrittura, che è ossimoro anch’essa: dell’autore è meravigliosa creatura – canterebbe la Nannini – questo suo scrivere raschiante e morbido, colto e popolare, lirico e quotidiano, limpido e sozzo, d’invenzione continua e di ricercata iterazione. Lui, il Calzana, procede con grazia e sapienza rimestolando il tutto da par suo nel magico pentolone della sintassi: il discorso diretto, il ragionare a mente dei personaggi e la voce narrante miscelati insieme a fino, così poi da sciogliersi amalgamati a far pozione d’incantesimo, che neanche Mago Merlino o la Magò.
6 Commenti
A duemila post mi sa che sono nonno, caro Beppe…
Mille e ancor più mille… auguri e complimentoni!
Il Beppe
…e già… tutta presa dalla lettura della schioppettante, dotta e qua e là birichina recensione mi sono dimenticata di porgere le mie sentite congratulazioni – come si dice nelle occasioni importanti – per il mille raggiunto. Notevole!
P.S. Direi che la palliata è certamente girante.
Complimenti, Claudio, per i Mille garibaldini post.
E tanti complimenti per il tuo straordinario libro.
Grazie a te.
Paolo G.
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Claudio, dov'è l'icona del "mi piace assai"?
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