Ieri mattina sono stato a scuola, il liceo scientifico di mio figlio (Marco come te), avevo il colloquio con gli insegnanti. E mentre aspettavo il mio turno, scopro che un suo professore è stato mio alunno, e la scuola di allora tocca la mia vita presente. Un bel viatico, direi, per tornare ai tuoi quesiti, Marco, che divido in due, tra oggi e domani, perché altrimenti la facciamo troppo lunga e magari pure seriosa. [ccalz]
1) Nel riprendere un passo della tua intervista, mi domando – e ti domando – se la “chiusura sistemica” (valoriale e regolamentare) della scuola in cui ci siamo formati da giovani sia poi così diversa dalla ostinata autoreferenzialità della società che andiamo a formare da adulti.
Sì, Marco, è proprio così. Al tempo della mia intervista non era chiaro, quanto meno non mi era chiaro, ma ora è sempre più così. Capiamoci bene: non si tratta di un dato assoluto, di una verità incontrovertibile. Ma è un dato di fatto sempre più accettato per tale, una sorta di ovvietà. Quindi quel che mi dà fastidio non è il dato di fatto, è l’accettazione supina dello stesso. In fondo, se ci prendessimo la briga di smontare l’autoreferenzialità finiremmo per cascarci dentro. Meglio fare un passo indietro, e lavorare, quanto meno provarci, sul fatto che le cose non è detto che debbano proprio essere così. Attenzione, nemmeno “l’assurdità del vivere sociale”, come la chiami tu nel secondo quesito, va accettata come dato di fatto, cioè non dobbiamo pensarla e viverla come talmente condivisa e pacifica che non valga la pena di metterla a fuoco, porla alla giusta distanza, farci i conti, insomma. Come diceva il Maestro Manzi, che dagli schermi televisivi mi ha insegnato a leggere, “Non è mai troppo tardi”. Il pessimismo potrebbe essere il rovescio simmetrico dell’assurdità.
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