
[26] I terremoti hanno fatto l’Italia, altro che i Savoia. Nei secoli distruzioni e ricostruzioni hanno modificato il paesaggio, lo hanno per così dire rifatto. Eppure, l’uomo – capriccioso e ostinato come solo un bambino – sembra aver dimenticato la sua precaria condizione, seduto com’è su di una terra inquieta, sempre pronta a riprendersi ciò che le spetta. Nell’incanto della vita quotidiana, egli dimentica il peggio, come se l’oblio potesse proteggerlo dal suo stesso destino. In un reportage dedicato alla Calabria sconvolta dal terremoto del 1905 Olindo Malagodi scrive: «In questo paese la cui stessa fisionomia accigliata, minacciosa avrebbe dovuto incutere lo spavento e con esso la prudenza dell’uomo, l’uomo ha edificati i suoi nidi, ha costruiti i suoi paesi, le sue case nel modo più irrazionale, più fantasioso e capriccioso. (Calabria desolata, citato in Galadini, Tracce ondulanti di terremoto). Eppure vi sono luoghi che svelano che cosa si nasconde là sotto, e quel che si rischia: ad esempio il piccolo lago di origine sulfurea, la Mefite di Rocca San Felice.
Non è chiaro se l’occhio di Mefite ti guarda, o sei tu che per suo tramite scruti l’abisso. Certo la piaga ti ammonisce, il fetore racconta di cadaveri e tane, là dove la terra rumina e bolle. Non per niente è vietato sporgersi verso la ferita, i vapori prendono alla gola e ti danno alla testa. Sovvengono i versi di Michele Sovente: «Maldestre finestre | con ossa tremanti | attraverso ombre di laghi | prossimi a morire | e vuoti improvvisi sotto i piedi, | il mio familiare andare | alla fonte dei veleni, il mio | irrequieto strabismo | (case e ringhiere sfocate, figure | forate, anfore e statue sfinite): | mi spìano crateri. Inseguo | e scruto l’azzurro, seduto sul | bradisismo» (cit. in Galadini). L’uomo, ricorda il poeta, è seduto su un sasso, ma sotto di lui la terra è instabile, viva e fremente, non ha mai requie, è un abisso di forze oscure e maligne. Eppure a soli 10 chilometri dal lago sorge l’Abbazia del Goleto, vertice di spiritualità, oasi di silenzio e di preghiera fondata da Guglielmo da Vercelli nel 1133. A settembre del 2022 Paolo ed io l’abbiamo visitata accompagnati da don Salvatore Sciannamea, che illustra il monastero a turisti e fedeli. Con lui abbiamo condiviso un ottimo pranzo, condito di considerazioni e ricordi. Uomo schietto e tenace, don Salvatore è uno di quei preti che fanno bene alla Chiesa.

A pensarci bene, mai contrasto fu più forte e istruttivo: da un lato un sulfureo cratere, dall’altro un’abbazia di rara suggestione. Allo stesso modo si può leggere il dopo terremoto: il profondo dolore che stordisce da un lato, dall’altro la voglia di riscatto e ritorno alla vita. Tra questi due estremi si situa la vita del più illustre filosofo italiano del Novecento, Benedetto Croce. Avrei dovuto laurearmi su di lui, sul suo concetto di memoria in particolare, poi la mia avventura universitaria prese tutt’altra piega: Maria, conosciuta proprio a Teora, studiava a Venezia, così decisi di approfondire l’affascinante figura del camaldolese Giammaria Ortes, veneziano. Questo per dire che le scelte che si fanno nella vita non sempre seguono percorsi così lineari. Ma tant’è, in questi miei ricordi ho voluto smentire un famoso monito di Nietzsche: secondo il filosofo, nella sempiterna lotta tra memoria («ho fatto questo») e orgoglio («figurati se ho fatto questo»), la vince sempre l’orgoglio, cioè l’oblio di quel che ci fa fare brutta figura. In ogni caso, ricordo bene che la vita di Croce fu irrimediabilmente segnata dal terremoto di Casamicciola del 1883. Il giovane Benedetto, allora diciassettenne, quel 28 luglio perse la madre Luisa, il padre Pasquale e la sorella Maria. Ne uscì con diverse fratture e in preda a una forma depressiva che lo accompagnò per tutta la vita. Si dispose agli studi filosofici proprio per arginare l’irruzione del male nella storia e nel pensiero. Potremmo dire che il male l’aveva già scontato a sufficienza, non c’era affatto bisogno di dedicargli ulteriore spazio nella sua attività di studioso. Ci sono ricercatori convinti che l’intera filosofia crociana nasca dalla necessità di superare il trauma e allontanare il demone della dispersione spirituale, perché il male non può avere l’ultima parola. Di quella terribile notte rimane traccia nelle Memorie della mia vita: «Rinvenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò ch’era accaduto, e mi pareva di sognare. […] Io m’ero rotto il braccio destro nel gomito, e fratturato in più punti il femore destro; ma risentivo poca o nessuna sofferenza, anzi come una certa consolazione di avere, in quel disastro, anche io ricevuto qualche danno: provavo come un rimorso di essermi salvato solo tra i miei, e l’idea di restare storpio o altrimenti offeso mi riusciva indifferente». Le ferite e il dolore fisico come consolazione rispetto al senso di colpa di essersi salvato: quante volte ho sentito storie simili a Teora, e ancora nel recente viaggio di ritorno. Il ricordo del filosofo compare anche nel Contributo alla critica di me stesso, ma di molto ridotto, quasi che il filosofo volesse ridimensionarlo. D’altronde, lo stesso Croce ricorda che per vari mesi dopo il trauma sperò di non svegliarsi la mattina e di aver pensato più volte anche al suicidio. Ancora in tarda età il filosofo scriveva parole che lo avvicinano a tutti coloro che hanno vissuto un simile lutto: «Solo per questo desidero la morte, perché allora finirò di ricordarmi di quella notte».
La democrazia del terremoto, ventisettesima puntata. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
1 Commento
Grazie per questi racconti così belli e veri. Sembra di esserci!
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