
[27] A riguardarlo da vicino, il terremoto è una faccenda terribilmente democratica. Piglia tutti, chi viene viene, mica fa distinzioni sociali o di censo. Lo sa bene Ignazio Silone, che ha vissuto sulla sua pelle la scossa del gennaio 1915 nella Marsica: «In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Il terremoto realizzava quello che la legge a parole promette e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza di tutti». Un’uguaglianza effimera, a ben vedere. «Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie». Subito dopo il terremoto, i poveri tornano poveri e i ricchi son di nuovo distanti, come accade tra sudditi e potenti. E si riprende a costruire proprio là dove sarebbe sconsigliabile farlo, come se nulla fosse. Ma è pur vero che i disastri naturali segnano anche personalità straordinarie, accompagnandoli per l’intera vita: Wolfgang Goethe, bimbo di pochi anni, avverte uno dei terremoti i più devastanti della storia, quello di Lisbona del 1755. Il suo ricordo lo troviamo in Dalla mia vita. Poesia e verità (Einaudi), e proprio nelle primissime pagine. La scossa durò sei minuti e distrusse l’intera città portoghese, generando incendi devastanti e un’onda alta 15 metri. Scrive il poeta tedesco: «Sessantamila persone, ancora un istante prima tranquille e soddisfatte, vanno insieme incontro alla rovina, e il più felice fra loro va considerato colui che della tragedia non serba né coscienza né percezione». Dopo aver ricordato i segni premonitori che molti giuravano d’aver individuato, le successive considerazioni dei timorati di Dio e i pareri dei filosofi, scossi nel loro incrollabile ottimismo per le magnifiche sorti e progressive, Goethe annota: «Si può forse affermare che mai il demone della paura diffuse con tanta celerità e prepotenza il proprio orrore sulla terra». Giuseppe I, re di Portogallo, dopo la sciagura visse tormentato da incubi e visioni. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1777, dormirà solo in edifici provvisori, tende o baracche di legno. Un altro personaggio celebre, Giacomo Casanova, detenuto ai Piombi a Venezia, sente eccome la scossa avvenuta a oltre 2300 chilometri di distanza: «Stavo in piedi nella soffitta e guardavo in alto verso l’abbaino, semicoperto, come sempre, da una grossa trave. [Il carceriere] stava uscendo dalla mia cella con due dei suoi, quando scorsi l’enorme trave non soltanto oscillare ma spostarsi verso destra per poi tornare di nuovo indietro con un movimento lento e ininterrotto; nello stesso tempo sentii mancarmi l’equilibrio e mi resi conto che si trattava di una scossa di terremoto. […] In seguito, pensandoci, mi rammentai che fra gli eventi possibili calcolavo anche il crollo del Palazzo Ducale che avrebbe potuto favorire la mia libertà».
Se il tremendo sisma suggerisce a Casanova l’idea della fuga – riuscirà a evadere l’anno seguente –, nelle sue memorie Goethe prende le distanze dall’accaduto, raccontando l’esperienza non in prima, ma in terza persona: il terremoto di Lisbona mise a repentaglio «l’equilibrio interiore del fanciullo», scrive. Il futuro poeta aveva da poco compiuto sei anni, ed evidentemente l’impressione dell’evento fu tale che ancora decenni più tardi lo allontanava da sé con l’aiuto della lingua. Nel suo racconto, la memoria personale si lega ai ricordi dei familiari: «Costretto ad ascoltare più e più volte questi resoconti, il fanciullo ne fu non poco sconcertato. Esponendo giusti e ingiusti alla medesima rovina, Dio, il Creatore e Preservatore del cielo e della terra, che l’interpretazione del primo articolo della fede presentava in tutta la sua saggezza e misericordia, si era dimostrato tutt’altro che paterno. Vanamente il bambino tentò di difendersi da queste impressioni, tanto più che nemmeno i saggi e gli studiosi riuscivano a mettersi d’accordo su come si dovesse interpretare un simile fenomeno». Anche Goethe richiama la democrazia del terremoto, ma in una cornice che sottintende la domanda sulla giustizia di Dio: si Deus, unde malum? Se Dio esiste, da dove deriva il male? Voltaire pone il quesito nel Poema sul disastro di Lisbona (1756), qui possiamo ascoltarne l’inizio. Diversi anni dopo, l’11 maggio 1787, Goethe si occupa ancora di un sisma, ma questa volta in Sicilia, e a proposito di una mancata ricostruzione: «Dopo la terribile catastrofe che colpì Messina [nel 1783], uccidendo dodicimila abitanti, i trentamila superstiti erano rimasti senza tetto; la maggior parte delle case essendo crollate, e le mura lesionate delle rimanenti non offrendo un rifugio sicuro, si costruì in gran fretta, su una vasta prateria settentrione, una città di baracche, di cui è facile farsi un’idea per chi abbia visto all’epoca delle fiere il Römerberg di Francoforte o il mercato di Lipsia; anche qui negozietti e botteghe artigiane sono tutti aperti sulla via e la maggior parte dell’attività si svolge all’esterno. Gli edifici d’una certa mole sono quindi rari, anch’essi, però, tutt’altro che nascosti al pubblico, poiché i loro abitanti passano buona parte del tempo all’aperto. Così vivono da tre anni in qua, e questa esistenza in casupole, in catapecchie e perfino in tende influisce decisamente sul carattere di chi la conduce. Il terrore lasciato loro da quell’immane disastro e il timore di subirne un altro simile l’invogliano a godere da spensierati le gioie del momento» (Viaggio in Italia, Mondadori). Vicende antiche, direte voi. Vicende sempre attuali, dico io.
Acqua e vento, il ventottesimo capitolo del mio viaggio. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
1 Commento
Non ci avevo proprio mai pensato alla democrazia del terremoto, una democrazia triste certo, ma è così che succede quando la sciagura coglie un popolo. Noi non ci siamo piegati, però il ricordo ancora brucia, perché tutti abbiamo avuto qualche perdita materiale e umana
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