Don Pier Giorgio

Teora, dicembre 1980. Alcuni volontari di San Marco in Lamis.
Fotografia di Angelo Ciavarella.

[24] In roulotte dormivamo in quattro, due per parte. Da un lato Paolo Endrizzi insieme a don Pier Giorgio Bellucco, che prima di addormentarsi se la contavano e ridevano per ore; dall’altro io con uno dei volontari di passaggio. In genere si trattava di ragazze, cosa che Paolo ancor oggi mi rinfaccia, come potete ben immaginare. Nato a Merano nel 1936, al tempo don Bellucco aveva 44 anni, giusto il doppio dei miei. Musicista di rara finezza, era appena rientrato da dieci anni di missione in Giappone. Tranquillo e misurato – le rarissime volte che si arrabbiava se ne usciva con oscure espressioni in giapponese che facevano ridere tutti quanti – don Pier Giorgio indossava dei moon boot dal colore molto vivace. Lo prendevamo in giro per questo, e lui stava al gioco: dai, dove si è visto un Carmelitano Scalzo conciato in questo modo! E se Gabriele Tardio – laico – a Teora tutti pensavano che fosse un sacerdote, per via della gran barba e dei sandali; lui, vestito da civile, veniva scambiato per un volontario, pochi immaginavano che fosse un consacrato. Ancora: se la sindacalista Luisa Morgantini sperimentava quelle nuove forme di organizzazione sociale che il post terremoto, a suo dire, avrebbe potuto determinare; Bellucco, uomo di fede e di preghiera, viveva l’esperienza a Teora per far emergere il meglio in ciascuno di noi, abitanti e volontari. Se Luisa scuoteva gli animi, cercando di indirizzare la rabbia verso forme di aggregazione e di proposta; don Pier Giorgio invitava alla reciproca comprensione, al dialogo e alla riflessione, ma state pur certi che non ne faceva scappare una. Un’ingiustizia anche minima lui non poteva tollerarla. Con stile e modi assai diversi, Luisa e Pier Giorgio si muovevano entrambi nel solco del meglio e del bene. E qui devo confessare una bugia che mi tiro dietro da oltre 40 anni: in roulotte ci si serviva del bagno chimico, che andava pulito con regolarità. L’incombenza era parecchio sgradevole, e lo si faceva a turno. Quando toccava a me, non è che fossi proprio al settimo cielo. Preso da mille faccende, una volta lasciai correre, e la sera Pier Giorgio me ne chiese conto. Io mentii spudoratamente, sostenendo che avevo pulito eccome, non era colpa mia se qualcun altro poi aveva sporcato di nuovo. Non era vero, lui lo sapeva bene. Senza dire una parola, si prese l’incarico, e nemmeno mi fece la paternale. A distanza di anni, gli chiedo scusa e lo ringrazio di cuore per la lezione.

In quei giorni convulsi, anche le deiezioni facevano parte del capitolo infezioni ed epidemie. Non a caso, in diversi memoriali dedicati al post terremoto si trova traccia di soluzioni a dir poco improvvisate: «Uno scavo lungo e profondo, rettangolare, su cui avevano posto trasversalmente dei pesanti travi in ferro. Su di essi erano poggiate delle cabine rosse in lamiera. All’interno, al centro del pavimento della stessa lamiera pesante, c’era un buco. Era quello l’improvvisato water, e lo scavo sottostante una enorme disgustosa fogna». (Siamo a Caposele, lo racconta Donato Gervasio in Polvere alla luna, Giraldi 2010). Fatto sta che – forse per farmi perdonare, o più facilmente per mania di grandezza – qualche giorno dopo la bugia decisi che avrei preparato da mangiare per tutti: stiamo parlando delle decine di persone che si ritrovavano quotidianamente in mensa. Il menù che avevo in mente era semplice: spezzatino con purè. Il cuoco mi rovesciò per terra non so più quanti sacchi di patate da pelare, ma prima ci fu un prima: pulire la pentola, talmente alta che per entrarci era necessario un trabattello, con gli stivali ai piedi, per poi brandire la canna dell’acqua e grattare il fondo con una paglietta gigante. Poi la trafila: le patate lavate e sbucciate per ore, tagliate a tocchi, poi bollite per bene e, in mancanza di meglio, schiacciate una a una con una forchetta gigante; litri di latte versati all’ingrosso – con le dosi si andava a sentimento –, qualche cartone di sale, delle belle mescolate ad amalgamare, burro a volontà. Ma ero in netto ritardo per gli spezzatini al sugo, ossia per capirci frammenti di carne di chissà quale bovino e tolle di pelati a guarnire. Avevo calcolato male i tempi: il purè era pronto da mo’ mentre la carne era di là da venire. Il cuoco se la rideva sotto i baffi, ma da buon Samaritano mi affiancò nel momento in cui stavo per soccombere alla corvée che mi ero imposto da solo. E tutto andò per il meglio: rancio ottimo e abbondante, con qualche bicchiere a riscaldare i corpi e i cuori. Dopo quello a don Piergiorgio, il secondo grazie lo devo al cuoco. Anche in queste piccole cose l’esperienza a Teora mi ha fatto crescere: ho toccato con mano i miei limiti, ho compreso le responsabilità che ogni scelta e azione porta con sé, ho misurato i miei sogni, facendone tesoro e rifugio. A Teora sono arrivato ragazzo, e sprovveduto; a Bergamo sono tornato consapevole, e uomo.


Ricigliano, la venticinquesima puntata del mio viaggio. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.

Aggiungi Commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *