La neve dal tetto

© Massimo De Dominicis 1980

[22] Venne il giorno di una visita più difficile di altre. I proprietari di quel casolare a qualche chilometro da Teora nel terremoto avevano perso tutti i figli. Nessuno osava andare a trovarli: chi ci era stato riferiva che là dentro il dolore era troppo, speravi solo di essere altrove. C’era una ragazza con me quella volta, non riesco a ricordarmi chi fosse. Ricordo soltanto che non le avevo proprio detto tutto, nel timore che si defilasse. Era mattina tardi, nevicava appena. Bussai, chiamai. Nessuna risposta. Mi feci coraggio, spinsi la porta. Dentro, in penombra, ardeva un camino. In un angolo il tetto era squarciato, la neve si posava lenta entro l’unico spicchio di luce. Una coppia di anziani stava ai lati delle braci, l’uno di fronte all’altra. Ci girarono uno sguardo. Io faticavo a raccapezzarmi in quel barlume, mormorai qualche parola di saluto, magari convenevoli scontati. Lui con il volto scavato, la barba mal fatta; lei più rotonda, con la pelle del viso screpolata dal gelo. La donna scomparve senza una parola, l’uomo si martoriava le mani. A un certo punto, ci indicò delle sedie male in arnese. Si alzò, su un tavolo campeggiava un salame. Ne tagliò qualche fetta e ci invitò all’assaggio mentre andava a cercare il pane. Nel mentre, la donna aveva preparato una moka. Per noi tazzine, bicchieri per loro. Non un accenno ai figli, né da parte mia, tanto meno da loro. Capii che dovevo ascoltare il loro silenzio, star lì e basta. Ruminai quel salame per farlo durare più a lungo, il caffè centellinato per bene. A un certo punto dissi all’uomo che nella jeep avevo provviste per loro e cibo per gli animali. Si mise giusto il cappello, come se non avesse altro che quel gilet scuro per tenere il freddo lontano. Fuori, di nascosto, infilai in un’unica busta tutti i soldi che mi restavano da distribuire; poi tornammo verso casa con gli aiuti, comprese qualche coperta e due giacche a vento che magari potevano andare. Dentro, mentre la moglie rigovernava, feci scivolare la busta tra le mani dell’uomo. Accennai due parole di accompagnamento, come a dire c’è qualcuno che pensa a voi. Non mi sono mai sentito più inutile di quella volta.

A proposito del dolore dei teoresi, Luisa Morgantini, sindacalista, dice: «La cosa che mi colpiva moltissimo […] era la compostezza e dignità. Mi colpiva perché di fronte all’immagine che si aveva, che veniva mostrata, di gente che piange, che urla e non reagisce, mi chiedevo: se fosse successo a noi, di perdere davvero tanta gente, tutto, case, oggetti, come avremmo reagito?» (in Pierluigi Sullo, La casa di Rocco, Edizioni Lavoro). Tutto vero, certo, ma per il silenzio di quella coppia di anziani c’è forse anche un’altra ragione. Ce la insegna l’Ariosto, quando mette in rima il dolore di Orlando.

L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
(Orlando furioso, XXIII, 113)

Quando il dolore è troppo, fatica a venir fuori, proprio come accade a un liquido ristretto in un vaso largo di ventre e dalla bocca minuta. È proprio così: la poesia entra in scena quando le parole di tutti i giorni hanno perso ragione, o nemmeno salgono alla voce, perché il lutto supera ogni umana tenuta e comprensione. «Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia», ammoniva Giovanni Pascoli dieci anni prima del terremoto di Reggio Calabria del 1908. Ecco, quel giorno al casolare non mi mancavano le parole. Mi mancava la poesia.


Bambole, la ventitreesima puntata. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.

4 Commenti

  • flaviano oliviero Posted 25 Maggio 2023 14:13

    ed ancora mi trovo a riportare il cuore indietro nel tempo e riammaglio le tue parole con le altre lette nell’arco di una vita su questa tragedia e ancora mi stupisco di non stupirmi del senso di tristezza, sgomento e smarrimento che pervade il mio animo nell’apprendere sempre nuovi episodi di questa tragedia che, anche grazie ai tuoi scritti, verrà tramandata in tutto il suo tragico dolore.

    • Claudio Calzana Posted 26 Maggio 2023 13:12

      Dolore in forma di poesia, carissimo Flaviano: per non arrendersi al fato, che non è mai tale, alla disperazione intransitiva, alla rassegnazione. Per immaginare una terra finalmente nuova, nuovamente lieta, popolata da gente indomita e fiera, capace di sorprendere il suo stesso destino.

  • Iris Giunta Posted 24 Febbraio 2023 21:44

    Immagino che non sia facile raccontare storie come questa. Ricordi del genere sono preziosi ma anche molto, molto dolorosi. Grazie per aver trovato la voglia e la forza di condividerli

    • Claudio Calzana Posted 24 Febbraio 2023 21:49

      Non è facile, ha ragione gentilissima Iris. A volte le lacrime prendono il sopravvento sulle parole, e allora devo lasciar perdere la scrittura, non ce la faccio proprio. Questo è stato uno dei ricordi più difficili, insieme a quello in cui rievoco la morte di Alessandro Gasparetto. Momenti duri, strazianti, che solo ora mi rendo conto quanto mi hanno segnato nel profondo.

Aggiungi Commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *