
[20] Nelle campagne attorno a Teora molti casolari erano messi davvero male, da non capire come facessero a reggersi in piedi. Raggiungerli era molto complicato, soprattutto dopo le nevicate, con il ghiaccio che teneva per giorni in scacco le strade; senza dimenticare che pochi mezzi potevano arrampicarsi senza danno per sterrati e dossi, tanto che – lasciata la jeep dove possibile – alcuni casolari li si doveva raggiungere a piedi, consegnando provviste e medicinali pochi per volta. Durante la mia prima visita fuori Teora, mi venne una domanda che avrei fatto bene a tenermi in tasca: «Perché non vi spostate in zone più sicure?». «E chi ci pensa alle bestie?», mi rispose secco il proprietario di casa, con lo sguardo che si riserva agli ignoranti. Già, lasciando le proprie case, quelle famiglie avrebbero lasciato incustoditi gli animali, che avevano bisogno di acqua – molti pozzi erano crollati, le falde inquinate – e di cibo – le scorte spesso sepolte e perdute. Per le bestie restavano, ecco la verità. Senza dimenticare che sciacalli ce n’erano, eccome. Qualcuno diceva che si trattava di gente del posto, altri era convinto che venissero da fuori, senza contare che qualche accusa cadde anche sui volontari. In ogni caso: agricoltori e allevatori si sentivano al servizio di una tradizione – la cura della terra e del bestiame – che veniva prima di loro, e a loro sarebbe sopravvissuta. C’era sotto qualcosa da trattenere e tramandare, un’urgenza che io ragazzo di città non potevo nemmeno sognarmi di capire. Ecco perché quando si andava a casolari le provviste per gli animali venivano consegnate per prime, come se gli umani fossero elementi accessori. E sapete cosa? Parlar di bestie, invece che di lutti e di crolli, notavo che piaceva ai proprietari, per cui mi facevo raccontare con dovizia di dettagli di mandrie e formaggi, di semine e raccolte. Di bestie e di campi parlavano aperto, e volentieri.
In queste spedizioni quasi quotidiane, tra allevatori e agricoltori ho conosciuto persone a dir poco incredibili. Un giorno incrociai alcuni militari tedeschi, tecnici efficientissimi con strumenti di precisione, che stavano cercando la quadra per montare una baracca. Uno di loro scrutava dentro un teodolite per indicare gli angoli propizi al compare, incaricato di fissare i picchetti nel terreno. Morale, prova e riprova, non trovavano l’inclinazione migliore per mettere a bolla la base dell’edificio in costruzione. Seduto nei pressi, sulla conca di un masso, il padrone di casa li fissava senza un fiato. Quelli faticano, mi dicevo, e lui se ne sta lì senza fare niente, pensa te che gente. Mi sbagliavo di grosso. A un certo punto, annoiato dall’attesa, quell’uomo si alza, un sospiro ad anticipare l’azione. Piglia un picchetto e lo posiziona in un angolo, così, senza manco guardare; lo stesso fa con gli altri, a completare il quadrato. I tedeschi sembravano statue di sale. Il teorese borbottò qualcosa, del tipo «Mo’ ci siamo». Pausa. «Alles in Ordnung?», Tutto a posto?, azzardai ai militari. Il tecnico preposto al teodolite non credeva ai suoi occhi: i picchetti erano perfettamente allineati, ora potevano cominciare a costruire. I tedeschi iniziarono a lavorare convinti che il teorese li avesse presi in giro, cioè che fin da prima sapesse come individuare i punti esatti per determinare il piano. Io sono invece convinto che quell’uomo fosse erede di un sapere antico, che precede la tecnologia, e sa pure farne a meno. Un sapere che non si spiega, e che certamente abbiamo perduto. Una faccenda analoga mi capitò con un agricoltore che, a detta di tutti, costruiva forni per il pane semplicemente perfetti. Un giorno, in dialetto, mi svelò il suo segreto: lui il forno lo costruiva da dentro, cioè si costruiva il forno attorno, pietra dopo pietra, per poi farsi tirar fuori dal pertugio riservato alla pala per maneggiare il pane o la pizza. «Così il tetto piglia la piega giusta». Questa immagine è talmente bella che l’ho usata per chiarirmi l’arte di Luigi Meneghello. Sono certo di aver compreso meglio lo scrittore di Malo grazie alla metafora assoluta che questo artigiano irpino mi ha regalato.
Capo campo, la ventunesima puntata.
Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
5 Commenti
Terremoto in Turchia: un’ecatombe! Alla luce di una tale tragedia mi sono andata a rileggere sia questa che la precedente pagina su quello in Irpinia. È stato un momento di grande emozione perché alle immagini, che in un certo senso si potevano sovrapporre (le dimensioni assolutamente non paragonabili), entravano negli occhi e nel cuore le presenze umane. L’urgenza dell’intervento, i soccorritori, i sopravvissuti, le fatiche, il dolore straziante, la disperazione fatta carne. Ecco, voglio proprio sottolineare ancora una volta la Sua grande capacità di presentare plasticamente tante figure nella loro coraggiosa fragilità, messa alla prova dalla tragedia. Una raffinatezza psicologica non da scherzi, che presenta in modo mirabile un quadro apocalittico! Grazie davvero per questa “trasmissione” di sentimenti, vissuti in prima persona e quindi tanto più preziosi.
Carissima Ida, quanto sta accadendo in Turchia e in Siria mi spezza il cuore. Anche se solo in parte, io so cosa vuol dire. E so che il dolore sarà immenso, infinito, una cicatrice che non potrà rimarginarsi mai. So anche che un terremoto non dura un minuto: nasce molto prima, quando si costruiscono edifici non all’altezza, per non dire fatiscenti; e va avanti per anni, per dar conforto e sostegno a chi resta, per tacer delle malversazioni che sempre – sempre – accompagnano questi eventi nefasti. Un terremoto non è semplice sfortuna, o colpa della Natura, ma va imputato a chi «non ha ordinato virtù a resistere», come scriveva Machiavelli.
La vita di campagna non soggiace alle regole della città. Altri i principi, altre le priorità. Nella mia esperienza, sia pur limitata alle campagne abruzzesi, tempi e ritmi sono dettati dalle stagioni, non dalle preoccupazioni, O meglio: certo che vivere in campagna è complicato e duro, ma prevale la fiducia nelle sorti naturali, a quel che la vita ci consegna e chiede.
Anche la mia famiglia scelse di non allontanarsi da Caposele. Si sistemò in un ” casino” ( da noi questa parola significa piccola casa rurale) che non aveva acqua e corrente elettrica, ma aveva un pozzo e un piccolo bagno. Fino al terremoto era stato usato come pollaio, ma nel giro di pochi giorni fu trasformato in una cucina molto molto rustica, con camino di mattoni; le galline furono sistemate sotto la radice di un ulivo, e quel locale, poi raggiunto da acqua ed elettricità, fu il nostro soggiorno per diversi anni. Qui ci riunivamo, venivano a trovarci i nostri amici e conoscenti, anche qualche volontario, qui i miei figli hanno giocato nei primi anni di vita con nonni e bisnonni. Nonostante i disagi ci sentivamo davvero molto fortunati. Nel periodo natalizio, un giorno si fermò la camionetta dei tedeschi che lasciarono vicino al cancello un pacco-dono. Aprendolo trovammo qualche dolcetto , candele e una bambolina vestita da Babbo Natale. Il vestito era di colore verde così come usano vestire Santa Clous i popoli nordici. Per molti anni quella bambolina ha trovato posto sotto il nostro albero di Natale. Dico grazie a quei sconosciuti che resero più lieto il nostro Natale e a quei volontari che, come racconti , si recavano nei casolari di campagna a porgere il loro aiuto scoprendo un mondo di semplicità e attaccamento alle radici.
Che bel racconto, Lucia, così semplice e così vero. Grazie infinite per questi tuoi ricordi.
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