Il giorno delle ruspe

[18] Ricordo una riunione molto nervosa. Era una sera di gennaio, gelida, dentro una tenda con la luce al minimo, tutta riservata al tavolo delle cosiddette autorità. Tra gli altri, il delegato della Croce Rossa regionale, che era venuto a sostenere la causa delle ruspe: a suo giudizio i detriti andavano sgombrati in fretta, le vie ripulite dalle macerie, il paese aveva bisogno di una parvenza di ordine. I teoresi erano totalmente contrari a quella scelta, che giudicavano perlomeno affrettata, e protestavano vibratamente. Per loro significava abbandonare la speranza di trovare i corpi ancora dispersi, oltre ai tanti ricordi – oggetti quotidiani, documenti, fotografie – che giacevano sotto macerie. A favore della soluzione più spiccia erano anche i tedeschi, gli unici peraltro ad avere i mezzi adatti, tra i quali un caterpillar dotato di un’enorme palla d’acciaio. In effetti era una di quelle situazioni in cui tutti avevano ragioni: chi voleva demolire, chi chiedeva di aspettare. Lo scontro tra le parti era inevitabile, ricordo il sindaco Ettore Chirico che si affannava a mediare, a invocare la calma. Prese allora la parola il delegato Cri, napoletano d’accento e di pensiero. La mise sul «Qui dobbiamo ragionare, non possiamo più rimandare il lavoro». Parlava di lavoro, evitando di chiamare per nome quella scelta drastica, argomentava parte in italiano, parte in dialetto, ma sempre col noi: noi dobbiamo, noi crediamo, noi pensiamo… Ora, siccome mi ero portato Minima moralia di T. W. Adorno – libro che talvolta di notte aprivo, una due pagine prima di crollare dal sonno – lì per lì mormorai una frase del filosofo tedesco che ho tuttora stampata in mente: «Dire noi e intendere io è una delle offese più raffinate». Lucia, la bella Lucia mi sentì. Era vicino a me, e io manco me ne ero accorto. Già indignata di suo, quella mia frase finì per accenderla del tutto: «Hai ragione, ma quale noi? E poi questo parla in dialetto solo per fotterci».

Quella sera le due fazioni non trovarono la benché minima intesa. Da una parte i teoresi erano convinti che le ruspe sarebbero entrate in azione presto, magari già l’indomani, ed erano furibondi; dall’altra i fautori dello sgombero erano certi che gli abitanti del paese si sarebbero prima o poi rassegnati, e si accingevano all’azione. Fatto sta che quella notte accadde qualcosa di molto strano, a dir poco imprevedibile. Dal campo dei tedeschi – e stiamo parlando di militari, non di gitanti della domenica – dal campo dei militari, dicevo, sparirono parti meccaniche dei mezzi idonei alla demolizione. Ricordo che sparì anche la grossa biglia d’acciaio, qualcuno mi corregga se questa me la sono sognata. A farla breve, il giorno dopo di demolizioni neanche a parlarne. I tedeschi avevano il morale sotto gli stivali, gli occhi bassi nell’economia della vergogna. Non era chiaro chi fosse stato, io un’idea me l’ero fatta, ma ovviamente me la tenni per me. A quel punto le parti si riavvicinarono, trovando un compromesso: le ruspe avrebbero atteso qualche giorno ancora. E guarda caso i pezzi rubati saltarono fuori come d’incanto. Durante la successiva settimana, andai spesso alla ricerca di oggetti e frammenti del passato perduto. Rispetto al fervore delle mie prime spedizioni a macerie, ora ogni ritrovamento lo accoglievo in silenzio. Consegnando quelle povere cose alle famiglie, avvertivo il loro sconforto, una miscela d’impotenza e dolore. Di lì a poco le ruspe avrebbero iniziato la loro triste fatica: tutti avvertivano che quello sarebbe stato il punto di non ritorno, il momento da cui è possibile datare con precisione l’origine di un sentimento ancor oggi molto diffuso da quelle parti: la nostalgia del prima. Lo coglie persino la “straniera” Luisa Morgantini nella sua testimonianza: «Ho come una grande nostalgia di un paese che non ho mai visto» (Sullo, La casa di Rocco). I timori dei teoresi vennero puntualmente confermati. Scrive Stefano Ventura nel suo Storia di una ricostruzione: «L’azione delle ruspe sulle rovine del centro abitato fu incisiva e massiccia, compromettendo il recupero di alcuni edifici o di parti di essi. Il palazzo Corona, che sorgeva nella piazza XX Settembre, la piazza principale del paese, fu anch’esso demolito». A proposito della ricostruzione di questa piazza, così si esprime Generoso Picone in Paesaggio con rovine (Mondadori 2020): «A Teora la piazza XX Settembre è irriconoscibile, squadrata, anonima e deserta. La gente la frequenta poco, quasi niente, non l’ha mai sentita sua». Il giudizio mi pare troppo severo: la piazza ha sua composta dignità, anche se quelle “lancette “di orologio ferme sulle 19,34 fanno rabbrividire. A ben vedere, la ferita delle ruspe avrebbe fatto fallire anche il migliore dei restauri: piazza XX Settembre è la prova evidente che la Teora di prima non esiste più.

Teora, piazza XX Settembre. Sul selciato l’orologio stilizzato.

Militari, la diciannovesima puntata del mio memoriale.

Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.

2 Commenti

  • Irene Gironi Carnevale Posted 21 Gennaio 2023 00:23

    Ciao, ho appena letto questo tuo post e ho visto la seconda foto. La casa bianca a fianco di quella rosa in Piazza XX settembre era la casa della famiglia di mio nonno materno, la famiglia del Guercio (con la d minuscola). Io nell’anno in cui ho abitato a Teora per un periodo ho abitato casualmente in un appartamento adiacente, avevo 11 anni ed eravamo io, mia madre e mio fratello che di anni ne aveva 3. Conoscevo la famiglia Corona, la famiglia nobile del paese, guardavo “lo struscio” per il corso dalle finestre e ascoltavo i racconti di famiglia di mia madre. Ho vissuto a Teora dall’estate 1966 alla primavera inoltrata del 1967, ci ho frequentato la prima media e ho ancora, per fortuna, amici e amiche vivi, anche se altri, pure parenti, sono rimasti sotto le macerie. Un ricordo vivido di quel mio inverno ha per protagonista proprio quella piazza: aveva nevicato e per tutta la mattina avevo visto i bambini scivolare prendendo la rincorsa su un lastrone di ghiaccio. Divorata dalla voglia di fare lo stesso, ma troppo timida e insicura per misurarmi con la loro abilità dovuta all’esperienza (avevo visto una sola volta la neve a Taranto a tre anni, mentre per vederla a Napoli avrei dovuto aspettare di averne 16), aspettai l’ora morta del dopo pranzo, trovai una scusa per scendere, forse dicendo che andavo dal tabaccaio, e nella piazza deserta presi la rincorsa e…finì la mia scivolata sul sedere! Fu comunque molto divertente e “trasgressivo” per la bambina imbranata che ero all’epoca.

    • Claudio Calzana Posted 21 Gennaio 2023 00:28

      Grazie, carissima Irene. I tuoi ricordi mi convincono una volta di più che il valore dei miei racconti sta tutto nel legame che riescono a creare con chi mi legge. Come nel tuo caso, altri testimoni si son fatti vivi, mi hanno inviato immagini e memorie. La scrittura forse a questo serve, a donare rammendi e ragioni.

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