
[12] La mia presenza a Teora si divide in due momenti, intervallati da qualche giorno a casa per riprendere fiato. Il primo, da inizio dicembre 1980 a poco oltre metà gennaio; il secondo, fino agli ultimi giorni di febbraio 1981. Ebbene, all’inizio facevo quel che serviva, un megafono chiamava e si accorreva a dare una mano. Ad esempio, distribuire generi di prima necessità, portare viveri agli abitanti dei casolari, spesso privi di tutto, rispondere alle esigenze del momento, accogliere e istruire nuovi volontari, tenere a bada i giornalisti a caccia di scoop. Oltre alla mancanza d’acqua, in una terra che ne è così ricca, tanto che da Caposele la regala all’intera Puglia, la seconda emergenza era il freddo. Di notte, quando ti svegliavi e non sentivi più i piedi, seguivo il consiglio di un anziano del paese: «Fai un giro veloce nella neve a piedi nudi». Aveva ragione, tornato a letto i piedi scottavano che era un piacere: geloni scongiurati. Però le stufe elettriche erano poche, si continuava con il fuoco a legna, all’aperto dentro grossi barili o nei camini nei casolari che avevano retto l’urto della scossa. Nelle tende, invece, il freddo era implacabile. Ricordo le lamentele degli alpini bergamaschi, con loro avevo il vantaggio del dialetto, che si rivolgevano a me per ogni cosa. Dopo tre giorni di viaggio nel cassone di un camion – avevano vagato perché la destinazione l’avevano appresa per strada – una volta giunti a Teora si erano resi conto che servivano eccome indumenti invernali, altro che divisa leggera, si vede che al comando erano convinti che il sud è tutto sole e mare; men che meno si erano portati attrezzi per scavare o ruspe, caterpillar e simili. Erano lì con i fucili d’ordinanza, persino le baionette, una cucina da campo sproporzionata, e molti erano soldati di leva, con pochi mesi di naia alle spalle. Il confronto con i militari tedeschi della Bundeswehr, professionisti della protezione civile, era a dir poco impietoso.
Ebbene, girava voce che i magazzini di Napoli e Salerno avessero stufe in quantità, ma a Teora non arrivavano neanche per sbaglio. Noi telefonavamo di continuo, interpellavamo le varie autorità, persino i conducenti dei tanti mezzi che quotidianamente facevano la spola. Stanco di aspettare, e irritato dalle mille promesse a vuoto, una sera insieme a un complice presi un furgone per andare al magazzino di Salerno a verificare la faccenda. La scusa che ci eravamo pensati era quella di chiedere catene per le auto e le jeep, la neve era tanta e mica mollava. Alla richiesta di catene, il piantone rispose sul comico andante: «E che avete paura che ve le rubano?». Mi è sempre rimasto il dubbio che quel soldato fosse davvero convinto che le catene servano soltanto per evitare i furti, a Salerno la neve non è proprio di casa. Era già notte, qualche militare era di guardia, ma era una cosa lasca, all’acqua di rose, condita di chiacchiere e sigarette. Fingendo di andarcene, entrammo da un ingresso secondario, fate conto che era un enorme capannone, con varie aperture incustodite lungo i lati. C’era veramente di tutto, montagne di roba, distribuita su scaffali lunghi decine, forse centinaia di metri, e a varie altezze. Guidati dal cono di una torcia, andammo in cerca delle stufe, che per fortuna stavano in basso, a portata di mano; stipammo il furgone oltre misura, pure sui sedili davanti. Il viaggio di ritorno fu scandito da un allegro suono di ferraglia, alle nostre spalle le stufe si urtavano a ogni minimo inciampo delle ruote. Già la mattina appresso cominciammo a distribuirle a chi ne aveva più bisogno, girando tra tende e casolari. Ora, qualcuno lo chiamerà furto. Immagino che il reato, se è tale, sia caduto in prescrizione. E comunque ne vado fiero.
Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
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