
[10] Quando ancora cercavo il mio posto tra le mille emergenze, venni a sapere che i primi a portare soccorso a Teora non furono i mezzi dell’esercito, ma gli emigrati. Intuita la gravità della situazione, si erano precipitati in paese da ogni parte d’Europa. Tra i primissimi ad arrivare ci furono anche i volontari di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia. Ecco una loro testimonianza: «Quello che trovammo è difficile da spiegare. Una diecina di militari che con le mani cercavano di scavare tra le macerie, la gente del posto che si avventurava nelle zone più interne del centro abitato a scavare, nel campo sportivo pochissime tende e la nostra autoambulanza-centro mobile. […] montammo una tenda vicino al mezzo e subito si avvicinarono alcune persone che chiesero se avevamo qualcosa di caldo, io e Raffaele Nardella avevamo portato la nostra autosufficienza di attrezzatura per cucinare (una spiritiera), non pensavamo ci volesse una cucina da campo, ma quella mattina la spiritiera riscaldò molti litri di latte per tante persone che potevano avere una bevanda calda dopo una notte passata all’addiaccio» (Gabriele Tardio, Sisma 1980). Erano passati soltanto due giorni dalla scossa, e il clima era completamente cambiato, in ogni senso: a proposito del giorno del sisma, Stefano Ventura titola il suo primo libro Non sembrava novembre quella sera, un endecasillabo che suona di presagio; gli fa eco Angelo Ciavarella, uno dei volontari foggiani, che un paio di giorni dopo la scossa ricorda: «Faceva tanto freddo quella sera». Ancora un endecasillabo, a raffigurare il tempo della sofferenza e del dolore.
Com’è noto, la gravità del sisma non venne percepita subito. Ci volle il fermo richiamo del presidente Pertini per svegliare la nazione. Molti volontari partirono dopo le sue parole, anch’io ne rimasi turbato, ricordo. La mancanza di comunicazioni era totale, solo la visione riportata dai primi elicotteri fece scattare i soccorsi. Dall’alto, la percezione fu drammatica e chiara: il mondo aveva perso i colori, tutto era grigio per via dei detriti, con chiazze di fango a corredo, la terra era zuppa di pioggia. La tavolozza originale si era smarrita, e con essa la vita. Al mio arrivo, inizio dicembre 1980, Teora appariva persa e confusa, giusto un cumulo di frammenti percorsi da umani che ancora scavavano, con la cieca speranza di chi non ascolta ragioni. Ancora settimane dopo la scossa, forse addirittura a gennaio, ricordo un cittadino di Teora vagare per le macerie gridando il nome del suo giovane compagno. Con le lacrime agli occhi mi raccontava la loro storia d’amore, che in paese non tutti approvavano, anzi. Ci sono stato oltre due mesi a Teora, e non ho ricordo giornate di sole, che pure ci saranno state. Ricordo il bianco abbacinante della neve, che scese copiosa su quei resti di case, sui terreni e le vie. Il vento la spingeva sui dossi, e lì sfiorava i due metri, con i mezzi che arrancavano senza più strade e passaggi. Persino il cielo aveva perso di tono e vigore. Viene alla mente il lamento di Giobbe nella versione di Guido Ceronetti: ««Dov’è la mia speranza | Qualcuno ha visto il mio bene?».
L’undicesimo capitolo del mio viaggio nella memoria.
Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
Un ricordo di Gabriele Tardio.
1 Commento
Grande Presidente mi ricordo ❤️
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