Se si può dire Pasqua…

Illustrazione di Marco V. Burder

Nei colloqui familiari, l’espressione gratis et amore Dei indica l’inconsueta e quasi scandalosa disponibilità a sospendere ogni pretesa di risarcimento e persino di dovuta retribuzione. Uno sforzo, un’abnegazione, un dispendio che negano i criteri del risparmio di sé a favore di una communitas che di fatto non c’è, ma che sempre rimane nel sogno di molti. Per qualcuno la storia si è fermata al Venerdì; tuttavia, si può apprezzare lo splendido vizio di quanti riescono ancora a sperare nella Domenica, e nel Lunedì che la segue: purché si ricordino che anche il mondo è fatto a immagine e somiglianza. Deus sive Natura.

Il regno di dio
Questa notte di vigilia, oppure un’altra, avrei potuto svegliarmi a causa d’un vago affanno cardiaco. Nottetempo, la legione degli ammanchi tiene quartiere col bastone della colpa. Poi, oramai verso l’alba, un po’ stropicciato, mi sarei addormentato di nuovo e avrei sognato che il regno di dio è arrivato, prova ne sia che tutti ci lavorano gratis e con reciproca dedizione. Non per minaccia né per costrizione, non c’è più servitù, niente ricatti, nessuna sferza, nessuna paura. Anzi, lavorano tutti senza alcuna pretesa e proprio per questo sono leggeri, fraterni e congiunti; ovunque è in corso una felicità definitiva, e un telo d’amore universale si stende sulla scena del mondo per rallegrarlo nell’operosità. Gratis et amore mundi. – I sogni dicono qualcosa che non è mai così. Ormai ci si rassegna subito, al risveglio: quando si sa bene che il regno di dio non verrà più. Doveva, e forse poteva, già molti secoli o millenni fa, agli esordi della specie; ma non c’è stato, o magari a suo tempo nessuno se ne accorse, e noi siamo qui con le nostre miserie e le nostre voglie elementari, siamo in alluzzo per bocconi di vita che presto si deteriorano e marciscono. Ci si volge l’un l’altro con furia e con sgarbo per poter essere a portata di morso, o di sesso. Eppure, per dar retta ai sogni, e forse solo così, può ancora capitare di svegliarsi con serena volontà, con fiducia confermata nel presente: finché dura l’incanto onirico, per i pochi momenti successivi al dormiveglia, ci si sente in una terra pacificata dove si è appena stati, il regno sognato di dio. Nel qual regno sparisce il prima e il dopo, è un perenne respiro privo di ricordi e spoglio di speranze, dato che non ce n’è più di bisogno. Ci si accampa nella pace, e tutti si lavora con zelo perché si è perfettamente certi che non occorre più alcuna mercede, ma neppure ne punge il desiderio; non ci si pensa affatto e intanto si lavora gratis, con dedizione e alacrità che rendono tutti finalmente compiuti nel proprio ruolo e ciascuno felice nell’intimo. Soltanto per virtù di quel sogno si resta compatti e sociali, stipati dentro un’arnia di buona volontà, e nessuno è scontento nonostante che disgrazia e sofferenza continuino a serpeggiare tali e quali. Nel regno di dio e della sua giustizia ciascuno si pareggia in un’unica gioia che prima non avrebbe avuto alcun motivo d’essere; lì si è tutti congregati in un solo abbraccio che non esclude più nessuno, anche i molti o moltissimi che continueranno a soccombere in ciò che per l’innanzi, a perdersi nel vortice del tempo, sarebbero state le tremende sentenze della storia e quelle inesorabili della natura. Per compiacersi in tutto ciò, occorre rimanere figli del sogno anche in veglia, perché le vicende umane da sole impediscono ogni pretesa d’assoluto per evidenza inconfutabile, e ricusano ogni sacralità ultima: ossia quella che, a partire dalla fine, tutto giustifica e salva a ritroso. Il fine, la rivelazione, è pur stato un rimedio consolatorio, una verità postrema e postuma per sanare le miserabili angherie del mondo naturale, e di quello storico-sociale, spostandole nel soprannaturale per la loro completa redenzione. Ma se nel regno di dio non c’è alcuna finalità, continua invece a esserci la morte, ovvero il vuoto che non si è riusciti a colmare in se stessi e che persiste a reclamare le nostre cure. Dovunque è mancanza e lacuna, anche nel regno di dio, e insufficienza, e mediocrità, e bassa stoltezza: sì, anche nel regno della giustizia. Eppure, almeno questo: non vi sono colpe che ancora ardono e delle quali si arrossisce invano persino dopo decenni. Allora, per ricordo del sogno felice di quel regno impossibile, sto disteso sul pavimento: prendo anche la posizione di chi sia stato colpito a tradimento, o di chi abbia lottato e poi perso, o fulminato di botto, o lentamente venuto meno sulla riva di un mare calmo, sotto la frasca di un pino che lambisce la sponda. Faccio il morto per simulare l’attesa di un angelo incaricato che da un momento all’altro si chini su di me: l’angelo ultimo, l’angelus vetus, incuriosito e preoccupato della mia inattesa dipartita, pietoso e rassicurante come sono quelli di Duccio, mesto come nel dipinto di Raffaello, o forse spaventato e attonito come quello di Paul Klee. L’angelo è stupito, non sapeva di dovermi vegliare e accudire: gli angeli, come gli animali, i bambini e la morte, non sanno nulla, sono ignoranti per ingenuità. Essi operano, ciascuno secondo la propria natura, ovvero operano gratis e senza accorgersene, da sempre accasati nel regno di dio pur non avendone cognizione, sorretti da un anonimo fulgore. – Dopo il risveglio, mentre il gran sogno svanisce con la sua grazia, resta negli occhi e nelle mani il retaggio suggerito dal rimpianto: di cercare il regno di dio con le nostre sole forze, di imitarlo con la nostra semplice immaginazione, ben sapendo che non lo troveremo se non springato in poche minuscole faville, vale a dire in quelle felicità che di giorno in giorno paiono, e sono, senza motivo alcuno. Dispensate per ognuno come figlie distratte del nonnulla.


Un altro racconto di Marco V. Burder, L’invisibile

1 Commento

  • Gioacchino Leva Posted 26 Aprile 2022 15:01

    Non somiglia a niente che ho letto, mi affascina e nello stesso tempo mi inquieta per la lucidità con cui procede. Non c’è una parola fuori posto, neanche una

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