Cartoline, che passione!

Si è aperta giovedì 16 settembre presso il Museo delle Storie di Bergamo la mostra Fotografie da cartolina. Bergamo e provincia 1940-1970 (fino al 12 dicembre 2021, da giovedì a domenica dalle 11 alle 19, qui per info). Dopo l’introduzione della Direttrice Roberta Frigeni e del Consigliere Delegato Emilio Moreschi, mercoledì sera ho chiacchierato di fotografie, immagini e cartoline con Nadia Bassis, Curatrice del volume dedicato alla mostra, e a Jennifer Coffani, Responsabile dell’archivio fotografico del Museo. A seguire trovate una sintesi del mio intervento. A corredo, alcune immagini del Fondo Ditta Cittadini (©Museo delle storie di Bergamo, Raccolta Domenico Lucchetti).


A ben vedere, le cartoline generano tre atteggiamenti in chi le osserva:

  • c’è chi si lascia incantare dall’immagine e resta a bocca aperta, toccato dalla meraviglia che ruba gli occhi, come si dice. Potremmo definirla la pura contemplazione, il grado zero, direbbe Foucault;
  • chi studia le immagini da vari punti di vista (Roland Barthes definiva studium questo lavoro), compito che spetta agli esperti del settore;
  • chi si lascia colpire da qualche dettaglio dell’immagine (punctum, sempre secondo Barthes) e da lì parte a raccontare.

Da narratore sono particolarmente legato al punctum, ma oggi proverò ad andare oltre. Ho scelto di raccontarvi 7 cartoline, distinte in 3 ambiti:

  1. il meccanismo, cioè il funzionamento delle immagini da cartolina;
  2. la funzione economica e sociale delle cartoline;
  3. il loro valore per il narratore, ovvero il messaggio personale, unico, e per ciò stesso non codificato che ci consegnano.

Ma prima di partire per il nostro viaggio, ascoltiamo le parole di uno storico del calibro di Marc Bloch, che nel 1949 scriveva:

«Nella vista che io godo dalla mia finestra, ogni studioso si ritaglia la sua parte, senza occuparsi troppo dell’insieme. Il fisico spiega l’azzurro del cielo, il chimico l’acqua del ruscello, il botanico l’erba. Il fatto è che il paesaggio, come unità, esiste soltanto nella mia coscienza e che la caratteristica del metodo scientifico […] consiste nel trascurare deliberatamente l’osservatore, per non voler più conoscere altro che gli oggetti osservati». (Apologia della storia).

Come accade per la storia, disciplina assai complicata e complessa, anche per la fotografia dobbiamo mettere in campo più saperi; senza mai dimenticare, come ci insegna Bloch, che il fulcro dell’immagine è l’osservatore, che mentre guarda si porta dietro tutta la sua storia, le sue conoscenze, le sue emozioni. In tal senso, se è vero che per capire a fondo un’immagine servono degli esperti, altrettanto vero è che di fronte ai mille riverberi di un’immagine siamo tutti in qualche modo esperti.

  1. Il meccanismo delle immagini da cartolina

Quando un fotografo va a “caccia” di immagini da cartolina, si pone certo la domanda di che cosa valga la pena di ritrarre. Esattamente come il pittore quando piazza il cavalletto di fronte a questo o quel panorama. In effetti, en plein air, vale sempre un quesito di fondo: che cosa scelgo di riprendere? Questo o quello? Sembra una questioncina banale, ma non lo è. Nelle fotografie da cartolina prevale la riproduzione di quello che le persone si aspettano che venga ritratto, perché considerato più noto, più bello secondo un’estetica consolidata, più comprensibile e dunque facilmente condivisibile; scelta che va a scapito di ciò che si mostra meno, che risulta periferico e meno invitante, per così dire. Insomma, la fotografia da cartolina ritrae quel che ci si aspetta che venga ripreso, non ciò che sorprende se viene ritratto. Coglie il punto Wittgenstein nei suoi Pensieri diversi: «Noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello».


Bergamo, panorama dalla stazione dei treni (post 1947-ante 1956)

Le cartoline sono quindi frutto di una scelta, di una porzione, un ritaglio, un punto di vista. Solo che, con il tempo, la parte scelta prende il posto del tutto, tende a sostituirlo. La figura retorica è quella della sineddoche (vela per barca, banchi per scuola): la tal vista di Bergamo finisce con il rappresentare la città intera, la cartolina indica che il luogo fotografato è tra tutti il migliore, e va esibito con orgoglio, perché è quel che conta vedere. L’immagine qui sopra ci presenta il profilo di Bergamo alta. Ecco, questa è davvero Bergamo, ci dice l’immagine, la parte (skyline) sostituisce il tutto (Bergamo). Ma anche in questo caso il punctum ruba la scena. Da immagini come questa prende infatti vita il tormentone che affligge noi bergamaschi da sempre, quando in vacanza veniamo assaliti dal quesito: «Bèrghem de sùra o de sóta?». Vai a spiegargli che la nostra provincia vanta oltre 240 comuni, più di quelli dell’intera Toscana…

Bergamo, monumento a Donizetti

C’è anche un’altra forma di sostituzione. In questa immagine Bergamo è “ridotta” a Donizetti, Donizetti sta al posto di Bergamo come Ulisse sta per l’astuzia o Ercole per la forza. Una città può venir rappresentata per antonomasia, a partire dal cittadino più illustre, visto che l’antonomasia è la sineddoche che fa leva sull’individuo. Certo, qui lo storico potrebbe raccontarci qualcosa di interessante, grazie al suo studium. Ad esempio, di come il teatro abbia rappresentato una sola opera di Donizetti lui vivente, per la precisione L’esule, ospitando invece più volte – e osannando – Bellini, che non sopportava Donizetti perché il bergamasco aveva maggior successo all’estero. Ancora: la scultura di Francesco Jerace era stata commissionata dalla città di Catania proprio per Bellini, ma siccome laggiù mancavano i fondi, lo scultore pensò bene di proporla a Bergamo, limitandosi a cambiarne la testa. Povero Donizetti: poco amato in vita dalla sua città, e celebrato con una scultura pensata per il suo rivale! Ma persino in una fotografia così all’apparenza “neutra”, e comunque storicamente densa di rimandi, il lato personale, soggettivo, spunta sempre. Il mio sguardo va dritto sul cigno. Una volta, avrò avuto un paio d’anni, nel maldestro tentativo di dar da mangiare a questi crudelissimi animali (devono pur rifarsi del fatto d’esser stati brutti anatroccoli…), sono stato tirato dentro la vasca da uno di loro. Era inverno, immaginatevi il freddo becco (appunto…).

2. La funzione economica e sociale delle cartoline

Tra fine anni ’50 e inizio ’60 la cartolina diventa status symbol, insieme all’utilitaria: questa ovviamente per viaggiare, quella per dimostrare di aver viaggiato. È il periodo d’oro del genere, vacanza e cartolina sono sinonimi. Le cartoline rappresentavano uno status anche per chi le riceveva. All’ingresso delle dimore borghesi, presto imitate dalle classi sociali meno abbienti, compariva uno specchio. Tra specchio e cornice venivano infilate le cartoline, a mostrare il mondo e le relazioni familiari. A casa mia c’era addirittura un grande vassoio a contenerle, sempre in ingresso. Già nel 1911 troviamo traccia di quest’uso:

«Penso l’arredo squallido e severo, | antico e nuovo: la pirografia | sui divani corinzi dell’Impero, | la cartolina della Bella Otero | alle specchiere… Che malinconia! (Guido Gozzano, La Signorina Felicita).

La conferma ci viene da Alfredo Panzini: la cartolina illustrata è un cartoncino postale «che riproduce il paesaggio di vari luoghi, quadri storici, scene comiche o figurine del genere, non escluse le procaci. Si sono diffuse dopo il 1870».

In questo contesto, la cartolina va intesa anche come réclame mobile, marketing territoriale si direbbe oggi. Ogni pubblicità è di fatto una promessa, e le cartoline non fanno eccezione. La scena proposta qui sopra è un inno alla tranquillità e al relax, la vista graziosa una promessa rispetto a quel che si sarebbe trovato sul posto, l’altitudine una garanzia di aria fresca e sana. In questi casi la cartolina somiglia a una t-shirt con sopra stampato il Brand.

Selvino – stazione climatica – Particolare della Cornagera (alt. m. 1350 s. m.) – La Sfinge

Da funzione a finzione il passo è breve. Già nel linguaggio comune l’espressione fotografia da cartolina apre due prospettive: immagine meravigliosa, certo, ma anche immagine stereotipata, in un certo senso falsa. Ma la cartolina falsifica la realtà? In alcuni casi, sì. Nella soluzione qui sopra il fotografo modifica il contesto grazie a un accuratissimo lavoro di preparazione. L’attrezzatura da montagna viene disposta scenograficamente in primo piano, le stelle alpine giganti sono sovrapposte all’immagine, la ragazza sta seduta lassù in alto a sinistra, come a dire che ce la possono fare tutti, in fondo questa è una montagna per famiglie. Già, ma chi era quella giovane? Durante la serata al Museo si è scoperto che si trattava della moglie del fotografo Cittadini, impiegata come modella per l’occasione.

3. Il valore per il narratore

Come abbiamo visto, ogni cartolina possiede una straordinaria forza evocativa. Grazie alle informazioni che ci forniscono gli studiosi, e alle suggestioni che nascono in ciascuno di noi, ogni cartolina parla, sia presa singolarmente, sia disposta in sequenza, cioè affiancando un’immagine all’altra., proprio come accade per i tarocchi che Italo Calvino dispone per scrivere il Castello dei destini incrociati, in ossequio alle regole della letteratura combinatoria. Ma che cosa suggeriscono al narratore le due cartoline qui sopra? La prima richiama la presenza meridionale a Bergamo, quando ancora su qualche casa comparivano cartelli di questo tenore: «Non si affitta a meridionali». Ebbene, il tardo pomeriggio, e soprattutto nei giorni festivi, gli italiani del Sud di stanza a Bergamo si davano appuntamento ai Propilei, dove aveva sede la società dei telefoni. Il motivo ce lo svela Lucio Mastronardi:

«Alla domenica le telefonate costano la metà. La sala della Stipel è piena di meridionali, che, seduti su poltroncine da salotto, stanno in attesa della comunicazione» (Il meridionale di Vigevano, 1964).

Il bar Calabria della seconda immagine completa la narrazione: il luogo di incontro è in questo caso un locale pubblico che fin dal nome chiarisce la terra d’origine dei proprietari, per tacer della tipologia di prodotti alimentari somministrati in mescita e al consumo.

Le immagini proposte in sequenza mi fanno venire in mente un brano tratto da Aracoeli, romanzo di Elsa Morante (1982). Il protagonista, Manuele, del passato di sua madre possiede soltanto tre cartoline provenienti da Almeria, in Spagna.

«Le sole immagini sue, che tuttora porto fisse nella mente, sono un paio di cartoline illustrate, giunte in passato a Roma, col timbro di Gergal, e conservate per anni in casa nostra. La prima è un’antica veduta della Porta di Almeria (la puerta de oro) disegno da Mille e una notte, stampato in un colore ocra solare (l’oro) chiusa con qualche macchia d’azzurro e di vermiglio. […] E la seconda cartolina è un interno di cattedrale (la Catedral Fortaleza de Almeria) dai molti cieli a volta intrecciati di nervature […]. Per me ragazzetto, queste due cartoline hanno significato il vero ritratto dell’ignota città Almeria. Ma di una terza, poi, mi sono addirittura impadronito, serbandola, in séguito, nel mio cassetto, tanto mi affascinava. C’è una ragazza in festa, con una grandissima gonna rosso fuoco, e, visibile, una sottogonna a volanti, di un materiale leggero e gonfio da parere di piume. Ha calze bianche e scarpette rosse; sul busto, uno scialle lavorato a fili multicolori e in cima alla testa una rosa bianca».

Ecco, grazie alle tre cartoline disposte in sequenza, e alla sua fervida immaginazione, il ragazzo fantastica sul matrimonio dei suoi genitori, in verità ben più prosaico e dimesso:

«Attraverso una porta d’oro, e di qua da una rada turchina pavesata di vele, i due sposi entravano in una Catedral-Fortaleza. Lei, abbigliata in un immenso vestito rosso fuoco, in testa un cappello di piume bianche; e lui in uniforme di parata bianca e oro».

In exitu

Bergamo, parco Suardi

Scorrendo le fotografie che troverete in mostra e nel volume, una in particolare ha “punto” la mia memoria e l’emozione: l’asino del Parco Suardi. Quando l’immagine mi è capitata davanti – noi abitavamo lì vicino – ho subito ricordato il suo raglio acuto, a volte straziante, il pagliericcio dentro la gabbia, l’odore di selvatico. Non solo: quando faceva veramente freddo, mio padre sentenziava: «Stànocc l’è mórt l’àsen del parco». E una delle sue minacce preferite per noi bambini era: «Guarda che ti mando a dormire con l’asino!». Già, certe fotografie aprono mondi, sono scrigni della memoria che ci permettono di ritrovare brandelli della nostra storia. Ogni cartolina, a ben vedere, è un racconto in nuce, basta lasciarla libera di pungerci e regalarle le parole per raccontarsi, e raccontare.


Il volume Fotografie da cartolina. Bergamo e provincia 1940-1970 è in vendita presso il bookshop del Museo della fotografia Sestini (Convento di San Francesco, Piazza Mercato del fieno 6/a, Bergamo). Online è disponibile sul sito di Nomos edizioni.

Scopri la collana editoriale dell’Archivio fotografico Sestini sul sito del Museo.

2 Commenti

  • Vanna Freti Posted 19 Settembre 2021 10:44

    Il bello è proprio che una foto può farti venire in mente interi periodi della tua vita che ti eri dimenticata oppure non ci pensavi più. Mi ha fatto venir voglia di riaprire i cassetti con le vecchie foto di famiglia. Grazie!

  • Lucia Rotasperti Posted 19 Settembre 2021 10:36

    Che storie meravigliose!!! Grazie, ne vorrei ancora…

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