Il 20 giugno 1976 i diciottenni furono ammessi per la prima volta al voto, io ci rientravo per qualche mese. Già che c’ero, mi candidai come scrutatore. Di quel giorno ho un ricordo nitido, un partigiano portato a braccia su una sedia di legno. Il suo arrivo era stato preceduto da un alone di rispetto. Non era tempo di carrozzelle, accessi per disabili e altre migliorie. Ecco comparire un uomo secco che non riusciva a parlare, si esprimeva a versi aspri e certe occhiate. Ictus, probabilmente. Mi offrii di accompagnarlo al voto, mi incenerì con uno sguardo: voleva fare da solo, anche se faticava a tenere la matita, la scheda per mano non ci stava. Nessuno osò contraddirlo. Nel silenzio che era sceso per il seggio sentii distintamente il tratto tirato sulla scheda. Un segno vigoroso, più volte ripetuto. Il partigiano richiamò i compari, la scheda semichiusa sulle ginocchia, la fatica di indovinare la fessura dell’urna. Nessuno si azzardò ad accompagnare quella mano.
Durante lo scrutinio, alcune schede vennero dichiarate nulle. Su una ci fu battaglia: il segno sul simbolo del Partito Comunista era così netto che la scheda era stata passata da parte a parte. Le opposte fazioni si accapigliarono per ragioni di bottega. Ecco, io ero e sono certo che quella fosse la scheda del partigiano senza voce. «L’intenzione di voto è chiara», dissi col candore dei miei diciott’anni. Quella volta bastò.
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