I miei romanzi secondo Maurizio Buscarino

Fausto Pirandello, La lettera (1929). Collezione Iannaccone.

Fausto Pirandello, La lettera (1929). Collezione Iannaccone.


Che dire? Quando arrivano letture critiche come quella di Maurizio Buscarino uno si sente subito a casa. A casa come scrittore, perché il grande fotografo ha davvero cesellato il mio mondo narrativo, e senza limitarsi al mio ultimo romanzo, no, se li è letti proprio tutti. Storie della nostra gente, memorie altrimenti perdute: così mi immagino quel che scrivo. Scrive Buscarino: “I tuoi libri li ho letti come canti di un’epica divertente e coinvolgente, in cui però si sente, passo dopo passo, un sedimento fondo su cui poggiamo, forse senza rendercene ben conto”. Grazie, Maurizio. [ccalz]

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Caro Claudio,
con, in ordine sparso di apparizione e di lettura, Lux, Il sorriso del Conte, Esperia, La cantante.
Da ragazzo, per me, Buffalo Bil era un viso pallido fetente che andava in giro a massacrare bufali e indiani. Piuttosto ero amico di Capitan Miki. E avevo ragione. Noi tenevamo agli indiani. E siccome io vedo giusto, vedo la spedizione dei tuoi eroi per rubare la cassaforte nel fortino come una risarcitoria scorreria predatoria, per quanto comica, dei Nostri nei confronti dell’invasore americano Yankee, astratto, luccicante e biondastro. Nei tuoi libri gli indiani sono quelli che abitavano il nostro leggendario villaggio, carico come un villaggio globale, di pompe sanguigne, di scaltrezza e ingenuità, di relazioni, di sfide, cibi, affari, intrecci, amori, invenzioni, meccanici, preti e p… (Giorgio Bocca in illo tempore), insomma di vita, che abitavano (abitano ancora?) nella riserva cintata e combattiva prealpina.
Le tue storie mi arrivano con un’eco di racconti che da bambino sentivo nelle riunioni familiari, nella casa di zia Elisa; racconti non rivolti a noi bambini, ma storie tra i grandi e dei grandi, alcune dette sottovoce, di persone e avvenimenti, in un tessuto – questo intendo per eco – di drammatica allegria per la vita. Ma anche di storie della zia Palmira, magra, alta, severamente vestita di nero, che però si rivolgeva a noi piccoli, terminando sempre con un pastì e pastù, n’è restat gna ű bucù.
E non ho potuto fare a meno di riconoscere, o credere di riconoscere, luoghi, vie, personaggi, il cinema Ariston in via del Nastro Azzurro accanto alla Camera del Lavoro, il pianista cieco Signor Pio che abitava vicino a noi, e… la Villa delle Rose… Ogni capitolo delle tue storie è l’annuncio di qualcosa che deve accadere…
Così, nel mio formicolio mentale di lettore, nel finale della tua messa in scena, alla fine del suo “incantevole e patetico” percorso della vita, il tuo Conte sorride – c’è anche un sentore di sfida – imboccando il tunnel che porta alla Luce e, in quell’esalare, mi è sembrato di sentire un fievole e sospirato …pòta! E a me, alle due di notte, gli angoli della bocca si sono rivolti un po’ all’insù.
La tua scrittura è allo stesso tempo espressiva e singolare, in una lingua scostata da quella letteraria standard, con i colpi del dialetto e le tirate in latino ecclesiastico. L’invenzione delle tue storie mi ha riattivato le connessioni, antiche ma sempre presenti, con il mondo in cui si svolgono e, insieme, sono invenzione della lingua di quel mondo, una lingua – almeno così mi pare – estremamente cesellata nel quotidiano, così fortemente costruita da darmi il sentore di una sorta di lingua mitica del paesaggio umano che descrivi. I tuoi libri li ho letti come canti di un’epica divertente e coinvolgente, in cui però si sente, passo dopo passo, un sedimento fondo su cui poggiamo, forse senza rendercene ben conto.
Qualcuno che studia dice che probabilmente le storie, come i sogni, non servono a niente, perlomeno a niente di grave, ma servono – e questa sarebbe la misteriosa necessità umana – ad accendere neuroni e sinapsi. Praticamente servono allo sballo.
Grazie Claudio

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