In genere, nei periodi in cui scrivo non leggo, ovvero leggo molto poco. Ma ci sono eccezioni, ovviamente: un po’ come quando si entra in cucina dicendo non ho fame, poi si annusa la pentola, si va di assaggio, e l’assaggio diventa ancora un po’, per concludere che si spazzola tutto. Così mi è capitato con il libro di Enzo Bianchi, il priore di Bose, titolo per l’appunto Il pane di ieri. L’ho preso su consiglio, l’avrei magari lasciato lì, anche perché Bianchi, visto in tv, mi suona talvolta retorico. Fatto sta che, dopo le prime due pagine, sono andato dritto in fondo: scrittura calligrafica e simmetrica, molto efficace e vigorosa; la cultura contadina della sua famiglia, la tradizione di gente aspra e generosa, come il vino di quelle parti. E il pane, il pane che non puoi buttare via, il pane raffermo che ci puoi fare un sacco di cose. Bianchi ha quindici anni più di me (stesso giorno e mese), ma mi è molto più vicino di chi ne ha quindici di meno. Anche nella mia famiglia il pane di ieri non lo potevi snobbare, “il pane di ieri è buono anche domani”. Qualche spunto, senz’ordine. Ogni cibo ha un’origine, ci giunge da terre lontane: coltivazione, lavoro, ingegno, tutte le competenze umane si riuniscono sul desco. Il mangiare veloce e inconsapevole perde traccia di questa ricchezza, cancella mondi, saperi e sapori. Il tempo che fa: domanda che oggi prende tutti, ma che in questo libro viene riportata al suo significato primo, al fatto che dalle condizioni meteo dipendevano il raccolto, la vita, il futuro. Non mescoliamo le cose, me lo dicevano sempre i miei, ci ho distillato pure un proverbio: pane e polenta mai, acqua e vino guai. A parte un finale a mio avviso un po’ retorico sulla terza età, un libro vero, onesto, vivo.
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