
[33] Chiamo a raccolta i ricordi di quei giorni, me li conto sulle dita. Ci sono tutti o qualche momento me lo son perso per strada? E se l’ho perso, è perché brucia troppo o più semplicemente non ha peso? La memoria, si sa, a volte gioca brutti scherzi, e ti propina quel che le fa comodo e conviene. Di certo se non fossi tornato in Irpinia dopo oltre 40 anni non avrei mai iniziato a scrivere. I ricordi non si sarebbero fatti vivi, bussando come solo loro sanno fare: con la certezza, cioè, che prima o poi qualcuno viene ad aprire. Mi chiedo: ma perché ricordo certe cose e non altre? Vai a saperlo, non sei tu che decidi: «Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolere resta nella memoria» afferma Nietzsche ne La genealogia della morale. E qui mi sovviene una vicenda capitata a Immanuel Kant. Per una non meglio precisata colpa, Kant licenzia il domestico Lampe dopo decenni di convivenza. Siamo nel 1802, quando il filosofo ha 78 anni e mostra evidenti segni di fragilità intellettuale: si dimentica di questo e di quello, si perde nel mezzo dei discorsi, talvolta persino vaneggia. Decide comunque di assumere un nuovo domestico, al quale peraltro mai si abituerà; e soprattutto si impegna con tutte le forze a dimenticare il nome di Lampe. Un obbligo che giunge persino a mettere per iscritto: «Ora il nome di Lampe va assolutamente dimenticato», la frase la si trova nei suoi appunti. Per Kant, a quanto pare, la scrittura aiuta l’oblio, perché allontana da chi scrive la cosa da dimenticare. Oggi noi sappiamo di Lampe, e ce ne ricordiamo, proprio perché Kant voleva dimenticarlo a tutti i costi, senza peraltro riuscirvi (la vicenda viene narrata in uno splendido film di Philippe Collins). «Se devi dimenticare qualcosa, prendi nota che questa cosa deve essere ricordata», scriveva Edgar Allan Poe. Rincara Raffaele La Capria: «Tu prima racconti le cose e poi te le scordi», (Ferito a morte, Bompiani). Sta’ a vedere che a mia volta ho scritto queste note per levarmi di torno l’ingombro emotivo di quel che ho vissuto. O per liberare spazio. E qui torna, daccapo e di nuovo, il monito che serpeggia tra queste mie note: narrando o scrivendo di certi fatti dolorosi, si fa memoria o ci si vuol immergere nel fiume dell’oblio? Secondo Platone, chi si affida alla parola scritta presto o tardi dimenticherà quel che, scrivendo, avrebbe voluto trattenere. Il ricordo, per così dire, resta solo sulla carta: «La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria» (è il mito di Theuth, riportato nel Fedro). In una lettera, Goethe così parla dell’oblio: «Questo sublime dono di Dio ho sempre saputo valutarlo, usarlo e intensificarlo».
Narrando e rinarrando la stessa vicenda, con le stesse pause e parole, ovvero affidandoci alla scrittura, accade che quel fatto a un certo punto si allontana da noi, e ci si sente magari più salvi e sereni, o anche solo sollevati e leggeri. Lentamente prendiamo le distanze da quel che abbiamo vissuto e riusciamo finalmente ad agire, non più paralizzati dalla paura di prima. Ancora Nietzsche: «Beati quelli che dimenticano», scrive nel frammento 217 di Al di là del bene e del male. A proposito di memoria, in italiano si usano due verbi non proprio sinonimi: dimenticare e scordare. Dal punto di vista dell’etimo, il primo ha a che fare con la mente, ovvero la ragione; il secondo con il cuore, ovvero le emozioni. Ci sono ricordi della mente e ricordi nel cuore: i primi hanno a che fare con una memoria oggettiva, esteriore, i secondi sono decisamente più personali, e hanno a che fare con una memoria soggettiva, interiore. Entrambe queste memorie lasciano sul campo qualcosa, ovvero non trattengono tutto. Una memoria troppo fedele, insegna Valery, non serve a nulla, al massimo ripete meccanicamente il mondo, come una mappa in scala 1:1. «Senza oblio si è solo pappagalli», riporta in uno dei suoi Quaderni. Quel che ci determina in quanto soggetti, dunque, non è quel che ricordiamo, ma quel che dimentichiamo. E magari anche come dimentichiamo. E perché. La memoria meccanica ci restituisce il mondo nel segno della coazione a ripetere, solo l’oblio intelligente consente di dimenticare il peggio e agire di nuovo. Nell’economia del ricordo, insomma, qualcosa si trattiene e qualcosa sfugge, come accade con un setaccio, e in questo bilancio sta il nostro essere più intimo e segreto. Scrive non a caso Stanisław Jerzy Lec in uno dei suoi Pensieri spettinati: «Chi ha buona memoria riesce più facilmente a dimenticare molte cose». Ma non dobbiamo certo dimenticare che memoria e richiesta di giustizia sono intimamente connesse, come accade per due verbi, dimenticare e perdonare, che in inglese e tedesco mostrano una comune radice: forget/forgive e vergessen/vergeben. Soprattutto nel caso dei disastri, l’oblio è una forma di amnistia. I singoli ricordano eccome la scossa, mentre la comunità, per progredire, tende a dimenticare l’accaduto: i primi sono bloccati nel ricordo, la seconda è preferisce di gran lunga l’oblio. E allora che dovrebbero fare gli irpini? Ricordare il terremoto, farne continua testimonianza? Ovvero pian piano lasciarlo sfilare nel gorgo delle cose passate? Non lo so, è una situazione tragica, qualunque scelta netta si rivela sbagliata. Per guadagnare un lembo di futuro, a loro tocca dimenticare la scossa, ma al tempo stesso sanno che non potranno mai scordarla: è una questione di giustizia e di cuore, lo devono alla memoria di chi non c’è più. Tra urgenza di dimenticare e impossibilità di scordare si gioca il destino d’Irpinia, terra della memoria e dell’oblio.
Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
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