
[23] Ogni tanto venivamo raggiunti da un avviso, o per meglio dire una voce si spargeva per Teora e tutti la ripetevano a pappagallo. Vai a sapere che cosa era vero e che cosa semplicemente immaginato. Un giorno, ad esempio, mi venne garantito l’arrivo di vestiti pesanti, con quel freddo era una manna. Poco dopo pranzo, in effetti, arrivò un furgone carico di scatoloni. Toccava a me verificarli e poi distribuirli come si deve. Bene, iniziamo a scaricare e subito mi accorgo che qualcosa non torna: troppo leggere quelle scatole, l’autista le lanciava come se contenessero paglia, altro che indumenti. Fermai le operazioni e ne aprii uno: conteneva vestiti, sì, ma quelli delle bambole. Erano gli anni della Barbie, e vi assicuro che in quelle scatole c’erano tutte le varianti possibili, per ogni stagione e occasione: minigonne e pellicce, completo per safari o serata mondana, cocktail e jogging. In casi del genere o ti prende uno sconforto assoluto, oppure di arrabbi di brutto. Quella volta semplicemente lasciai perdere, c’era troppo da fare per sprecar tempo in recriminazioni. Altra voce che girava convinta in paese: «Vogliono buttar giù tutto e ricostruire il paese da un’altra parte». Pare, e sottolineo pare, che gli industriali di Vicenza avessero avanzato questa proposta: avrebbero sostenuto le spese della ricostruzione per poi rifarsi con i contributi dello Stato. Era un modo, non proprio elegante, di mettere le mani avanti. Alla sola idea di spostare il loro paese i teoresi erano a dir poco indignati, anzi pronti alla ribellione. Al sindaco Chirico, come sempre, toccava mediare. Vita grama, la sua. Per fortuna il paese sta ancora al suo posto, grazie al principio ricostruttivo com’era/dov’era. Come sottolinea Giorgio Grassi nella relazione dedicata al Piano di recupero del centro storico di Teora, prevalse «la scelta, emersa fin dalle prime assemblee popolari indette dopo il sisma, di ricostruire Teora sul posto […], nello stesso luogo in cui si trovava. Cioè a dire la volontà culturale e politica di rispecchiarsi nella propria storia e di volersi ancora identificare in questa stessa storia senza incertezze nella ricostruzione».
Ricordo come se fosse oggi l’arrivo di una giornalista di Repubblica. Scese da un elicottero con tanto di pelliccetta e scarpe col tacco. Tra fango e neve, per stare in piedi si appoggiava al fotografo. Mi fece mille domande, e io dissi le cose come stavano, evitando di calcare la mano sugli aspetti macabri o pietosi. Quell’intervista non uscì mai, si vede che ero stato poco fedele al mix di sensazionalismo e rassicurazione che prevaleva sui mezzi di informazione. Una tendenza che, se possibile, ai nostri giorni si è fatta ancora più evidente: tanto la nostra società rimuove la morte naturale, tanto ama esibire quella violenta; tanto enfatizza i pericoli di quel che accade intorno a noi, tanto si dice convinta che tutto andrà bene. E convinto che tutto andasse bene era anche un volontario arrivato a Teora a inizio febbraio del 1981. Siccome ero il più anziano per presenza sul campo, toccava a me incontrare i nuovi arrivati e capire a quali compiti destinarli. Proprio io che, al mio arrivo a Teora, sembravo un turista scappato di casa. L’uomo in questione era un brianzolo sui 70 anni, alto e secco, con la macchina fotografica al collo. Prima che potessi fargli le due domande di rito, mi sgusciò via perché voleva scattare delle foto alle macerie residue. Al suo ritorno, allegro come una rondine, disse che la passeggiata gli aveva fatto venire fame, e chiese della mensa. Per età e disposizione d’animo un volontario del genere avrebbe certamente generato problemi. Per evitarli a priori, con la complicità di un medico misi in scena una pantomima di cui francamente mi vergogno, ma tant’è. Chiesi al dottore di fargli qualche esame al volo, la pressione in particolare, e di certificare dei valori ben oltre la norma. Il candidato protestava che era sempre stato benissimo, che magari lo sfigmomanometro era impreciso. La seconda misurazione diede valori ancor peggiori, sempre falsi ovviamente. Nel mentre, senza fare una piega, con una bindella misurai l’altezza dell’uomo, più di uno e novanta, ricordo; e con la voce più naturale del mondo chiesi al sanitario se ci fossero ancora delle bare di misura grande, visto il rischio a cui si esponeva l’anziano. «Non so, devo verificare», fece il dottore, serissimo. Terrore negli occhi del brianzolo, la voce ridotta a un soffio. La sua borsa da viaggio giaceva ancora intatta nella roulotte che mi faceva da letto e da ufficio. La raccolse e uscì di gran fretta. Non l’abbiamo più visto.
Don Pier Giorgio, la ventiquattresima puntata. Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.
2 Commenti
Io con un volontario come quello che ha descritto avrei fatto anche di peggio. Ma è possibile comportarsi così? Ha fatto benissimo a farlo scappare secondo me.
La ringrazio, Marco, ma continuo a pensare di non aver agito bene. In quei giorni era facile perdere le staffe, o a inventarsi strane iniziative. Spero – anzi un po’ ne sono certo – di aver fatto un favore a quel brianzolo, che certamente si sarebbe cacciato in qualche pasticcio.
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