Figli e padri

Anselm Kiefer, I Sette Palazzi Celesti, 2004-2015

[15] L’ho scritto fin dalla prima puntata di questo mio memoriale, e mi ripeto: a Teora ci andai per anticipare il servizio civile e allo stesso tempo per evitare quelle ipocrisie natalizie che proprio non riuscivo a digerire. Possibile che durante l’anno tra i miei genitori ci fosse una continua tensione, per tacer d’altro, e poi a Natale magicamente scattasse la pace? Pace che tra l’altro non durava chissà quanto, perché gli screzi tornavano a galla giusto dopo aver scartato i regali, cioè a tavola, tra una portata e l’altra. Non solo: da tempo il Natale aveva per me perso il significato religioso. La Chiesa degli anni ’70 mi aveva deluso, in particolare per la sua compromissione politica, e da diversi anni mi dichiaravo semplicemente ateo. Fatto sta che la mattina di Natale vagavo per Teora senza un particolare impegno; gira che ti rigira, capitai nei pressi della tenda che ospitava la messa, aperta verso i fedeli che si accalcavano all’infuori. Il prete – ricordo una tunica che spuntava sotto una giacca a vento, chissà se era proprio così – celebrava da un altare provvisorio, con il coro degli Alpini schierato ad abside alle spalle. Mi misi di lato, ma piuttosto vicino alla scena. Ebbene, fu proprio il canto a trattenermi. Quelle voci, le parole semplici del sacerdote, la compunzione del popolo riunito, tutto mi convinse che Natale lì aveva senso, come segno di speranza, come ragione di vita. Aveva dunque senso anche la messa, perché se io non credevo, altri credevano anche per me, in uno slancio di fede genuina e commovente. Se un Dio c’è, mi dico oggi, quel giorno a Teora era di casa. Di questo Natale parla anche Luisa Morgantini, sindacalista della FLM, che era scesa a Teora ai primi di dicembre con delle roulotte regalate da alcuni consigli di fabbrica milanesi: «A Natale ero stata invitata a casa di una famiglia e mi avevano dato dei dolci, che si chiamano zeppole. Io le avevo trovate molto buone. Questi dolci si fanno a Natale, ma chi è in lutto non può farli, sono gli amici che li portano. Allora mi è venuto in mente di proporre: facciamo zeppole per tutti, siccome quasi tutti hanno parenti morti, organizziamo un gruppo di persone che distribuiscono le zeppole […]; siamo riusciti a fare una quantità di zeppole inverosimile, con le donne che erano contente di farle» (In Pierluigi Sullo, La casa di Rocco, Edizioni Lavoro 1981).

Quando partii, i miei non la presero bene, anzi. E però ricordo che mio padre Giacomo, radioamatore, nei giorni immediatamente successivi alla scossa fu completamente assorbito per allestire i ponti radio. Mi piace ricordare qui il suo impegno – JL era la sua sigla – e quello di tanti come lui, che sopperirono alla mancanza assoluta di comunicazioni dei primi tempi. Lo ricorda bene il volontario sammarchese Angelo Ciavarella: «Furono i radioamatori i primissimi a chiedere soccorsi per le popolazioni del’Irpinia. Quella zona d’Italia, nella serata di domenica 23 novembre nel 1980, era stata completamente tagliata fuori da ogni tipo di comunicazione convenzionale». Già qualche settimana dopo, come in tutta la zona terremotata, anche da Teora si poteva chiamare gratis, ma i telefoni erano pochi, il che significava lunghe attese e chiamate veloci, perché quelli dietro di te non le mandavano a dire. E questa era una scusa fantastica per svolgere alla svelta il temino che preparavo per mia madre Maria Grazia: «Qui tutto bene, il freddo non è un problema, siamo ben coperti, da mangiare ci pensano i cuochi, ho conosciuto gente molto in gamba, l’emergenza è finita…». Oggi, da padre comprendo eccome l’apprensione dei miei genitori. E mi vengono in mente i miei figli, le loro scelte, le passioni, gli studi e il lavoro. E d’improvviso unisco i puntini: mia figlia Chiara è ricercatrice in Antropologia Storica all’Università Bicocca, si occupa in particolare del vissuto e della memoria delle popolazioni colpite da disastri naturali come il Vajont, parente prossimo della tragedia irpina. Per la tesi triennale, mio figlio Marco ha sviluppato un’applicazione per visualizzare in 3D i dati dei terremoti provenienti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Mia nonna Caterina avrebbe commentato: «I frutti non cascano lontano dall’albero». Già, ma non è tutto: il Relatore di Marco all’USI di Lugano, il Professor Michele Lanza, è nato nel 1973 a Sant’Andrea di Conza, a una dozzina di chilometri da Teora. Un paio di mesi dopo il terremoto è emigrato in Svizzera con la famiglia. A volte è incredibile come tutto torni: non serve scomodare il destino, che ha già tanti impegni, semplicemente è bello regalare ragioni quello che per pigrizia chiamiamo caso. Ovvero, come scrive Marco V. Burder: «Le coincidenze sono il residuo moderno dei miracoli. Nessun vantaggio a viverle, solo a raccontarle». Che vi devo dire: mi commuove il pensiero che i miei figli abbiano a modo loro ripreso il mio cammino di oltre 40 anni fa. Con altri strumenti, in altri contesti, per altri destini.


In memoria di un volontario, la sedicesima puntata.

Tutte le puntate del mio Ritorno in Irpinia.

3 Commenti

  • ROBERTO Posted 3 Aprile 2023 20:19

    bello e toccante

  • Rosario Coppola Posted 30 Marzo 2023 06:06

    Grazie

  • Renata Posted 28 Dicembre 2022 21:13

    Meravigliosi questi intrecci familiari, tra padri madri nonne e figli. Senza dimenticare il professore, storia incredibile e bella

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