Elogio dei padri

Luca Cambiaso, Autoritratto del pittore in atto di dipingere il padre (1570 circa)

Nei Paesi di tradizione cattolica il 19 marzo si celebrano i padri. Della festa in sé e delle sue derive più o meno esplicitamente commerciali qui poco importa. È semmai una buona occasione per ragionare sulla figura del padre: quello biologico, certo, ma anche i padri ulteriori che, se si è fortunati, può capitare di incontrare per via.

Il compimento

Il padre della tradizione è quello che vede il figlio come suo necessario compimento. Quello di Goethe, come si legge in Dalla mia vita, era un perfetto rappresentante di questa specie: «È un tenero desiderio di tutti i padri vedere concretizzato nei figli quanto non sono riusciti a realizzare loro, all’incirca come se si vivesse una seconda volta e si volesse finalmente fare tesoro delle esperienze della prima vita. Consapevole del suo sapere, convinto della propria costanza e mosso dalla diffidenza nei confronti degli insegnanti dell’epoca, il padre decise di istruire lui stesso i figli, demandando solo quanto riteneva strettamente necessario a singole lezioni tenute da insegnanti veri e propri». Tenero desiderio quello del genitore, d’accordo, ma come va a finire in questi casi? Talvolta succede come in Pastorale americana di Philip Roth: il genitore è convinto di aver dato tutto quel che poteva a sua figlia e lei che fa? Sceglie di diventare terrorista! Lo Svedese, il padre, è distrutto: la figlia ha rifiutato di incarnare l’immagine perfezionata del genitore. Ha scartato di lato, disattendendo le attese, proprio perché si ribella al baratto del «ti ho dato tanto, mi devi tanto». Lo Svedese è convinto che basti provvedere alle necessità della figlia per essere un buon padre, e proprio per questo non accetta l’idea di aver fallito, figuriamoci farsi da parte, lasciare spazio e tramontare. Vengono in mente i personaggi di Kafka, figli che si muovono per non procedere, perché il padre ingombra loro la via «con odio dichiarato» (Lettera al padre). Roba da paradosso di Zenone con annesso incubo, come quando in sogno vedi una meta che non riesci a raggiungere perché qualcosa di imprecisato ti trattiene e frena. Un aforisma dello scrittore boemo fotografa perfettamente la stasi: «Capire quale fortuna sia che il terreno su cui sta non possa essere più grande dei due piedi che lo coprono». In questo modo per il figlio non c’è spazio ulteriore, e nemmeno direzione. Restare fermo è l’unica scelta e condizione.

L’arco

In verità, non credo che per un padre sia così facile farsi da parte. A teoria siamo tutti bravi, ma poi nei fatti le cose scricchiolano sempre. L’umano, il troppo umano campeggia. Ma può capitare una seconda opportunità, quando i giovani incontrano sulla propria strada altri padri, che subentrano al primo, tragicamente incapace – per identità e contesto – a tramontare come si deve. Ed ecco il quesito, semplice e schietto: ma da cosa si riconosce il putativo? Vi racconto il caso mio, così magari vi specchiate. A far bene i conti, di altri padri io ne ho incontrati almeno quattro. Sono davvero tanti, è una fortuna riservata a pochi. Già, ma che cosa avevano in comune tra loro? Ciascuno di questi “padri” aveva una particolare stima di me, che invece avevo scarsa convinzione nei miei mezzi. Semplicemente mi davano credito, fiducia. Mi lasciavano fare, regalavano spazio al mio agire, errori inclusi. Il professore e il giornalista, l’assessore e l’editore: ciascuno di loro, senza esitare, mi ha affidato compiti che lì per lì mai avrei osato affrontare; e lo hanno fatto senza esitare. Ecco allora come la vedo: il secondo padre, quello che incontri per via, come un arco ti scocca non sai davvero dove; ma, una volta giunto al bersaglio, ti guardi intorno e scopri che è proprio lì che volevi andare. Senza quell’arco, mai e poi mai avresti trovato il coraggio di sfidare il cielo. Per avere coraggio, occorre qualcuno che ti infonda coraggio.

Il ramo

Mi rendo conto che, messa così, il padre biologico si restringe in un cantuccio, mentre i putativi si prendono l’intero podio. No, sarebbe ingeneroso. Ragioniamo: se, come Lacan, pensiamo alla madre coccodrillo, quella che cerca di inghiottire il suo figliolo, di trattenerlo tra le gonne e impedir le vie di fuga; ecco, il padre naturale ha un compito all’apparenza semplice, in verità tremendo: quando la madre spalanca le fauci, il padre deve inserire svelto un grosso ramo per evitare che il figlio resti prigioniero, o peggio dilaniato. Sembra una cosa da niente, ma è tutto quel che un figlio deve augurarsi. Quando un padre salva il proprio figlio, gli consente di emigrare là dove, se sarà fortunato e svelto, incontrerà altri padri capaci di spedirlo ancora più lontano. Il che si tira dietro un’altra decisiva conseguenza: se a ciascuno di noi è capitato di incontrare altri padri nella vita, ciò implica che, a nostra volta, possiamo diventare padri per qualcuno. Possiamo risultare arco o ramo, addirittura entrambi, ma una volta innescato il meccanismo non si è liberi di esser padri, ci tocca esserlo, secondo necessità; si è liberi semmai d’essere figli, ma solo se un padre ce lo consente e svela. Se ci pensate, solo quando si diventa padri si comprende appieno che significa essere figli.

Il dono

Servono dunque entrambi i padri alla bisogna: il primo protegge e soccorre, mentre ogni interprete ulteriore favorisce il passo e illumina la via. Padri che immagino con una mano maschile e una femminile, proprio come il padre che accoglie il figliol prodigo nella tela di Rembrandt, genitore che conosce sia la legge che il perdono. Padri che ai propri figli chiedono in cambio di diventare a loro volta padri, ma non in senso banalmente generativo: sarà un caso, ma il significato etimologico della parola padre non richiama affatto la riproduzione, quanto protezione e nutrimento. Guarda caso, il dono dei veri padri è sempre asimmetrico, oltre la miseria del do ut des: questi padri chiedono ai propri figli di restituire ad altri quanto ricevuto. Lo scrive persino Giuseppe Berto nel suo Male oscuro: «…l’amore di un padre è un motus animi che riceve in se stesso ogni possibile ricompensa, o anche si potrebbe dire che è una strada a senso unico per la quale le generazioni si succedono, e vi si potrebbe perfino trovare una concreta analogia con la vita medesima che non contempla ritorni…».

Rembrandt, Il ritorno del figlio prodigo, 1688 (part.)
La mano sinistra è più tozza e maschile, la destra è affusolata e femminile.

In meta

Forse l’immagine migliore ce la regala il rugby. Immaginiamo il padre come un giocatore che corre con l’ovale tra le mani ed è chiamato al passaggio indietro, quasi senza guardare. La sua speranza è che il figlio lo segua e raccolga l’invito. Non è detto che il passaggio riesca, nemmeno che il figlio sia nei pressi, magari la palla rotola via, l’azione si perde; ma a volte il passaggio va a buon fine, il figlio raccoglie l’ovale ed ecco il punto, la meta. Scrive Nathalie Sarthou-Lajus: «Nel rugby ogni giocatore sa che non può essere fecondo senza l’altro, senza il gruppo di cui è membro, senza quell’arte della trasmissione che è rappresentata per l’appunto dal gioco del passaggio. Bisogna procedere collettivamente, ognuno dipende dall’altro per far circolare la palla, conservarla e avanzare» (L’arte di trasmettere). Ancora: «Il passeur non fa che passare, non cerca discepoli. Con meno clamore e visibilità rispetto a un maestro, la sua azione concerne i dettagli più quotidiani e più inattesi dell’esistenza per destare lo stupore, favorire la meraviglia, rendere possibile la relazione, additare i significati. Egli eccelle così nel trasmettere non una cultura dotta, ma un’arte di vivere». Ecco, questo è il padre che mi piacerebbe festeggiare oggi: quello che passa la palla senza guardare, che indovina figli alle sue spalle, e che merita una speranza quasi in forma di preghiera: dacci oggi il nostro padre quotidiano.


A proposito di figli e di padri: Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni.

7 Commenti

  • Ida Bamberga Premarini Posted 11 Aprile 2022 10:28

    Ecco un’analisi profonda, assai concreta e senza sconti, sulla figura del “padre”, biologico o putativo. Uno splendido elogio riservato a quelli che se lo meritano.
    Lascia quasi senza fiato il lavoro di cesello messo in campo per presentare una così ricca galleria di ritratti, luminosi o meno, avallati anche da testimonianze letterarie di tutto rispetto.
    Al termine della lettura rimane tuttavia un retrogusto amaro per quell’unica pennellata al femminile e dedicata alla figura della madre-coccodrillo, ma è giusto non chiudere gli occhi neppure su una realtà ripugnante come questa…

    • Claudio Calzana Posted 11 Aprile 2022 10:34

      Non tutte le madri sono coccodrillo, carissima Ida, ma è certo che per loro è più difficile lasciar “andare” i figli. Nulla di cruento, ma l’amore talvolta esonda e travolge, o per l’appunto trattiene. Una madre poi è tanto più efficace nel suo ruolo – ma anche nella forma del suo amore – quanto più il marito la aiuta a trattenersi pure lei, ovvero favorisce l’inevitabile indipendenza degli eredi. Gioco di specchi e di ruoli.

  • Franco Posted 30 Marzo 2022 13:49

    Io la vedo molto più semplice, mi perdoni. I padri una volta avevano la giusta autorità dovuta al lavoro e al ruolo, se preferisce autorevolezza. Poi col lavoro delle donne – sacrosanto – tutto si è complicato, e i padri hanno perso peso in famiglia. Noi padri, intendo, ci son dentro anch’io. È tutto un mammismo! In casa le donne si ripigliano con gli interessi quel che fuori non viene loro riconosciuto, e poi son più brave nelle relazioni, è indubbio. Mi sa che noi padri abbiamo perso la partita, siamo marginali e stanchi.

    • claudio calzana Posted 30 Marzo 2022 14:04

      Gentile signor Franco, trovo la sua sintesi un po’ troppo affrettata. O meglio: è una lettura storica troppo schiacciata, fatta con il telescopio, per capirci. La faccenda è più sfumata e complessa, come sempre. Vero è che i padri vivono un periodo di confusione crescente, per ruolo e destino. Io credo che la consapevolezza che ho cercato di illustrare nel mio pezzo sia un buon punto di partenza. Ben sapendo, certo, che gli errori sono la regola, e non l’eccezione. E che gli errori materni, vai a capire perché, godono di maggiore tolleranza, forse perché frutto di amore incondizionato, ma come tale a volte un pochino ingombrante.

  • Vittorio Pepe Posted 27 Marzo 2022 18:52

    Ottima analisi, caro Calzana: le mie congratulazioni.
    Cita “Pastorale americana” – che considero uno dei migliori libri che io abbia letto – e Roth. Ah… mi rammarica che non abbia ricevuto il Nobel.
    Sono uscito fuori tema, lo so, ma cosa aggiungere a un articolo tanto ricco e completo?
    Ecco!
    La butto sul cinema: “I am Sam”, attore protagonista un eccellente Sean Penn; la storia di un padre pronto a tutto pur di non rinunciare all’affidamento di sua figlia, altrimenti destinata ad essere adottata.
    Grazie dell’ospitalità
    Vittorio Pepe

    • claudio calzana Posted 27 Marzo 2022 19:40

      Grazie, Vittorio, per le belle parole. E grazie per il richiamo cinematografico, in effetti non avevo pensato di inserire qualche film per meglio illustrare il concetto. Tengo buona l’idea per la prossima volta

  • Christian Posted 19 Marzo 2022 13:07

    Bellissimo articolo, grazie. Dostoevskij diceva: “ Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se ne rende degno”.

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