Valentina, stagista qui da noi in queste settimane, prende carta e penna per rispondere a quell’anonimo che in un commento al mio racconto Insegnare, che sballo affermava che gli stagisti ne escono proprio male. Ecco qua invece l’esperienza sul campo di Valentina, dalla quale emerge che «nessuna attività deve essere mai considerata di livello inferiore rispetto a ciò che si è studiato: mai». P.S. Il dirigente che non sa fare fotocopie NON sono io. [ccalz]
Sì, anche io sono una stagista. Sì, anche io attualmente appartengo a quella sottocategoria che nell’immaginario collettivo oscilla trai poli estremi di un decerebrato per cui la rilegatrice rappresenta un criptico marchingegno sardonico e una moderna Monica Lewinsky che ormai non è nemmeno più in grado di far processare i presidenti.
L’esperienza dello stage arriva sempre al momento sbagliato: appena prima della laurea, appena dopo la laurea, durante le vacanze estive tra un anno accademico e un altro.
Si aggiungano anche i tanti limiti lambiti durante il periodo di formazione universitaria:
La quasi totale assenza di esercitazioni pratiche.
Le carenze sapientemente sedimentate con caterve di notti bianche non trascorse sui libri.
L’ accumulo incondizionato di materiale nozionistico dovuto ad anni di approfondimento individuale che hanno librato nell’aere lo spirito intellettivo zavorrandolo ossimoricamente con ossa piene di midolla.
Come se non bastasse l’esperienza di inserimento al lavoro (precario quando va bene) viene considerata una perdita di tempo che fa perdere tempo a tutti: allo stagista che non impara nulla, ai colleghi che devono insegnargli tutto, proto-basi comprese.
Ciò che reputo la qualità migliore per cercare di vincere questi handicap è la voglia di fare.
“Fare” è un termine “sovrabusato” cioè persino più martoriato di quelle parole che si usano per indicare qualsiasi cosa senza una connotazione specifica.
Il punto però è proprio questo: bisogna essere entusiasti di qualsiasi attività che il mondo dell’azienda propone: si deve essere pronti ad orari flessibili, a relazionarsi con persone di ogni età, a sopravvivere per realizzare un progetto sia ai tempi morti che a quelli strettissimi. Soprattutto però trovo sia un punto a favore sapersi adattare a qualunque richiesta di “lavoro sporco”: fare fotocopie, fax, portare pacchi, spostare mobili, rispondere al centralino (anche improvvisare imitazioni imbarazzanti in dialetti oltre Po, ma questa è un’altra storia…).
Nessuna attività deve essere mai considerata di livello inferiore rispetto a ciò che si è studiato: mai.
Lo stage risulta una perdita di tempo se lo stagista per primo lo fa risultare una perdita di tempo: da qualunque esperienza grande o piccola che sia si può e si deve imparare. (senza contare che un dirigente che non sa da che parte orientare il foglio per fare una fotocopia, diciamolo, fa molto ridere).
Nel migliore dei casi forse verrà offerta una possibilità di collaborazione più stabile, nel peggiore dopo qualche mese lo stagista se ne andrà con un pezzo di carta pseudo-referenziato (e pseudo-referenziante) con qualche contatto in più in agenda.
Tutto sommato non male, visto che nell’era della comunicazione veloce non avere contatti equivale praticamente a non esistere.
2 Commenti
Ottima Valentina!
Sì, va bene tutto, ma a te cosa ti fanno fare?
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