Blazer 4, il Boggi

Va anche ricordato che l’editore chiedeva roba agile, non un volume alto come un mattone messo in piedi. La carta costa, anzi per la precisione costa se è bianca, quando la sporchi con l’inchiostro e la rileghi non vale più niente, come sostiene Gigi Lubrina. È sempre così, anzi, è sempre più così: bisogna fare la sintesi, e dopo la sintesi non ci siamo, bisogna togliere ancora. Tempi duri per l’analisi logica, siamo in epoca di sintesi analogica. Allora, siccome il tema moda mi interessava, vado a Milano a conoscere questo signor Boggi, e con lui il Luigi Baroli, cioè l’architetto che al Boggi gli creava tutto, dai negozi alla carta intestata. Oh, mica uno qualunque il Luigi, ha vinto il Compasso d’oro del design, se non ricordo male con un paravento sinuoso che a pensarci ti sembra una cosa facile, ma prova te e poi vediamo cosa sei capace. Un colloquio di almeno due ore, forse peggio, dove il Boggi è partito da quando era ragazzo per arrivare ai giorni nostri, mentre io, il Leo e il Luigi stavamo in religioso silenzio a ricevere il verbo. Una storia che un romanzo non ci arriverebbe neanche, tutta colpi di scena e di genio. Perché il Boggi, a modo suo, è un genio anche lui. Ha tirato su un impero cominciando da un carretto da ambulante. Tanto di cappello. Morale, il Boggi da un lato è il perfetto rappresentante del Made in Italy, ma dall’altro lui questo sistema non lo digerisce proprio. Gli pare che la gente sia perlomeno fessa a cascarci in quei maglioncini da 500mila lire, pagati 15mila a dir tanto in qualche altra parte del pianeta. A modo suo è etico, il Boggi, una discreta contraddizione in termini. Una specie di kamikaze capace di farsi esplodere dentro il suo stesso circo [segue].

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